La Chiesa ricorda due catechisti innalzati agli onori dell’altare, da San Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005), il 20 ottobre 2002 : si tratta dei martiri ugandesi Davide (Daudi) Okelo e Gildo (Jildo) Irwa, figure molto significative in questo ottobre missionario. Erano poco più che ragazzini quando nel 1917 si presentarono al comboniano padre Cesare Gambaretto offrendosi come volontari catechisti per la missione di Paimol, rimasta sguarnita dopo l’uccisione del fratello di Davide, Antonio. Battezzati e cresimati da pochi mesi, avevano appena diciotto (Davide) e quattordici anni (Gildo).

Daudi nacque nel 1902 circa in un villaggio del Nord-Uganda, situato sulla strada Gulu-Kitgum, da genitori pagani.

A 14 anni su propria richiesta ricevette il battesimo e la Prima Comunione da Padre Cesare Gambaretto, superiore della missione di Kitgum; fu cresimato quattro mesi dopo ed accettò di entrare nella lista dei catechisti.

Essendo deceduto il catechista di Paimol, Davide si presentò a P. Gambaretto, offrendosi di sostituirlo. Fu deciso di affiancargli come aiutante il giovane Jildo Irwa, nato nel 1906 circa, nel villaggio di Bar-Kitoba, a nord-ovest di Kitgum, da genitori pagani (il padre poi si convertì al cristianesimo). Ricevette il Battesimo, la Prima Comunione, la Cresima insieme a Daudi.

Il missionario P. Gambaretto mise i due ragazzi sull’avviso circa le oggettive difficoltà di tale impegno: sarebbero andati 80 Km lontano da Kitgum, in un posto dove erano frequenti le lotte tra le persone del luogo, fomentate anche da bande di razziatori e commercianti di schiavi e di avorio. Inoltre per gli esponenti delle religioni tradizionali, in particolari musulmani e stregoni, l’arrivo della nuova religione era la causa di tante disgrazie. Al che Daudi avrebbe risposto: “Io non temo la morte. Anche Gesù è morto per noi!”.

Così verso novembre-dicembre 1917, ricevuta la benedizione da P. Gambaretto, i due furono accompagnati a Paimol dal capo-catechista di Kitgum, Bonifacio. Qui Davide si mise subito a esercitare le sue mansioni raccogliendo i ragazzi desiderosi di istruirsi nella religione.

Al primo albeggiare, batteva il tamburo per raccogliere i suoi catecumeni alle preghiere del mattino, a cui aggiungeva per sé e per Jildo la recita del Rosario. Insegnava a memorizzare le preghiere e le domande – risposte del catechismo, che poi, per facilitarne l’apprendimento, faceva frequentemente ripetere durante le lezioni anche con il canto. Si trattava quindi dell’insegnamento dei primi elementi, designati Lok-odiku (le parole del mattino), ossia le parti fondamentali del catechismo. A questa attività si aggiungevano le visite ai piccoli villaggi dei dintorni ove si trovavano i catecumeni occupati nella guardia del bestiame o nei lavori dei campi.

Verso il tramonto dava il segno della preghiera comune e della recita del Rosario che concludeva sempre con qualche canto alla Madonna. Alla domenica teneva una riunione di preghiera più sostanziosa, spesse volte allietata dalla presenza di catecumeni e catechisti delle zone più vicine.

Ma la situazione locale si stava facendo sempre più grave.

La mattina del loro martirio, a Daudi che lo metteva sul preavviso di una possibile fine cruenta, Jildo rispose: “Perché dobbiamo temere? Noi non abbiamo fatto male ad alcuno; siamo in questo paese solo perché il padre ci ha mandato ad insegnare la parola di Dio. Non aver paura!”.

Durante il fine settimana tra il 18 e il 20 ottobre 1918, prima dell’alba, ancora molto presto, cinque persone si diressero alla capanna dove Daudi e Jildo si trovavano assieme, con il fine dichiarato di ucciderli. Uno degli anziani del villaggio affrontò i nuovi venuti dicendo loro che non potevano uccidere i catechisti perché suoi ospiti. Davide si affacciò alla porta della capanna e supplicò l’anziano di non immischiarsi. A nulla valsero le insistenze fatte dagli assalitori a Daudi di abbandonare l’insegnamento del catechismo. Per questo fu trascinato fuori dal recinto, venne gettato a terra e trapassato da colpi di lancia. Aveva circa 16-18 anni di età.

Il suo corpo poi fu lasciato insepolto fino a quando, alcuni giorni dopo, alcune persone legandogli una corda al collo, lo trascinarono in un termitaio spento, lì vicino. I resti mortali, prelevati da Paimol nel febbraio 1926, furono successivamente collocati nella chiesa della missione di Kitgum ai piedi dell’altare del Sacro Cuore.

Jildo ripeté agli uccisori di Daudi che lo invitavano ad abbandonare quel luogo e la funzione di aiuto-catechista: “Noi non abbiamo fatto niente di male. Per la stessa ragione per la quale avete ucciso Daudi, dovete farlo anche con me, perché assieme siamo venuti e assieme abbiamo insegnato la parola di Dio”. Allora una mano lo afferrò, lo spinse fuori dalla capanna e dal recinto e, lasciatolo a distanza di due passi, lo colpì con una lancia che lo attraversò da parte a parte. Poi uno degli uccisori lo finì con un colpo di coltello alla testa. Aveva circa 12-14 anni di età.

La testimonianza di Daudi e Jildo è estremamente significativa per le vicende odierne che l’Uganda sta attraversando. Si tratta anzitutto di due giovani laici catechisti che assieme svolsero e rimasero fedeli alla loro missione di trasmettere il Vangelo con le parole e la vita, senza imporlo a nessuno, ma mostrando la bellezza e la grandiosità dell’amore di Gesù Cristo per ogni uomo.

Inoltre, per essersi coraggiosamente trasferiti in una zona non appartenente ai loro clan di origine, divengono attualmente, nel loro ambiente, un segno della cattolicità e dell’unità della Chiesa. Infine, avendo vissuto in un tempo di lotte tribali, di interessi coloniali e di schiavitù domestica fiorente, rappresentano la purezza del Vangelo che sempre tutela la dignità della persona e promuove la pace tra i popoli, le etnie e le culture. Per questo, ancora oggi, sono ricordati nelle loro contrade come veri “testimoni di sangue” del Cristo

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Catechisti

Non oltre due secoli fa la maggior parte dei popoli negro-africani ignorava ancora il Cristianesimo. Esso, infatti, è stato portato solo recentemente nell’Africa nera, fatta eccezione della cristianità etiope e del tentativo infelice di evangelizzazione del regno del Congo, tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI, che si concluse nel XVIII secolo con l’estinzione di quasi tutte le missioni al sud del Sahara.

La fase dell’evangelizzazione sistematica dell’Africa nera cominciò dunque nel XIX secolo, periodo caratterizzato da un impegno straordinario dispiegato dai grandi apostoli e promotori della Missione africana, come Daniele Comboni (1831-1881).

Fu un periodo di splendida e rapida crescita della Chiesa in Africa, crescita dovuta non solo alla dedizione eroica di generazioni di missionari disinteressati, che hanno trasmesso la fede cristiana agli Africani, ma anche ai degni figli d’Africa, i collaboratori locali dei missionari occidentali, i catechisti: questi valorosi interpreti ed eroi del Vangelo.

Insieme ai missionari, essi furono i pionieri della prima evangelizzazione del continente nero. È su questi catechisti che ha gravato l’avvenire della missione africana. Qui si realizzava in qualche modo l’auspicio o il motto di Daniele Comboni: «Salvare l’Africa con gli Africani».

Fare il catechismo, insegnando la dottrina cristiana e la preghiera, non era affatto il solo compito dei catechisti. Si trattava anche e soprattutto per ogni catechista di rendere testimonianza con la propria vita cristiana, in un mondo a regime pagano, per rendere credibile il messaggio evangelico e giustificare la fede cristiana. L’attività di catechista doveva dunque essere portata a compimento con uno zelo ardente e generoso.

Questa forma d’apostolato laico è stata particolarmente importante al tempo della prima evangelizzazione missionaria. Molti catechisti vi consacravano tutta la loro vita, nel loro proprio villaggio o in villaggi vicini e a volte lontani. In genere, prima dell’arrivo dei missionari per la fondazione delle missioni, erano anzitutto i catechisti all’opera sul posto. Essi radunavano i fedeli per la celebrazione della domenica, della via crucis e la recita del rosario; essi preparavano i catecumeni ai sacramenti, facevano da interpreti, erano direttori di coro e a volte aiutavano il Sacerdote nel servizio all’altare; erano sempre loro i maestri alla scuola cattolica. Uomini tutto-fare!

Sono davvero questi primi catechisti in terra di missione che hanno saputo portare il nobile titolo di «catechisti» per eccellenza. Il loro contributo all’impianto della Chiesa in terra africana non è più da dimostrare e il loro ruolo è stato molto decisivo. È in questo contesto e in questa dinamica in cui certi Africani erano già i propri missionari dei loro fratelli che conviene collocare e comprendere la vita, l’opera e il martirio dei Beati Davide Okelo e Gildo Irwa, catechisti e martiri dell’Uganda che hanno testimoniato la loro fede fino all’accettazione della morte. Noi speriamo che essi siano presto iscritti nel catalogo dei Santi per essere onorati piamente e devotamente nella Chiesa universale.

Molti altri catechisti, non martiri, la cui fedeltà alla fede non è stata causa di patimenti e di morte, avrebbero anche potuto vedere introdotta la loro causa in vista del riconoscimento da parte della Chiesa della loro santità e esserne proposti come modelli, poiché la maggior parte di essi, fino a tempi molto recenti, hanno vissuto le virtù eroiche proprie della santità.

Ma non è sempre necessario essere stati ufficialmente annoverati tra i Santi per essere considerati come testimoni autentici della fede cristiana. Importa tuttavia evocare la loro memoria affinché si imitino la loro fede e il loro zelo nella diffusione del Vangelo. La loro storia non deve essere dimenticata, poiché essa conferisce alla Chiesa africana una meravigliosa nota «apostolica» da imitare e perpetuare. Il granellino che essi hanno seminato ha portato frutti abbondanti. Ne è testimone il fatto che, in circa due soli secoli, il numero di cattolici, di circoscrizioni ecclesiastiche e di membri autoctoni del clero ha conosciuto una crescita molto rapida e considerevole.

Tutto ciò è dono di Dio, poiché nessuno sforzo umano potrebbe compiere una tale opera in così breve tempo. La Chiesa africana non può che cantare con la Vergine Maria: «L’Onnipotente ha fatto per me meraviglie, santo è il suo nome» (Lc. 1,49).

Don Joseph Ndoum

da COMBONINSIEME