Omelie di Papa Francesco durante la santa messa quotidiana a Casa Santa Marta sulle letture della XXIV settimana del Tempo Ordinario (anno dispari)
Lunedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
1Tm 2,1-8; Lc 7,1-10
Pregare per i politici
“Sembra che lo spirito patriottico non arrivi alla preghiera”
Punto di partenza della riflessione del Pontefice è stato il brano della prima lettera di Paolo a Timoteo (2, 1-8), nella quale l’apostolo «chiede a tutto il popolo di Dio di pregare». Si tratta anzitutto di una «richiesta universale», generica — «Figlio mio, raccomando, prima di tutto che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini» — alla quale poi si aggiungono dettagli: «per i re e per tutti quelli che stanno al potere perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio». E ancora, concludendo: «Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo le mani pure, senza collera e senza polemiche».
Paolo «sottolinea un po’ l’ambiente di una persona credente: è la preghiera». Si tratta di una preghiera di intercessione nella quale c’è un inciso da tenere in considerazione: «per i re e per tutti quelli che stanno al potere». Si tratta dunque di una «preghiera per i governanti, per i politici», per tutti coloro che guidano un’istituzione politica, o un’amministrazione nazionale o locale.
«Alle volte, io sento compassione per i governanti, perché le cose che ricevono sono adulazioni da parte dei loro favoriti o insulti. E anche i politici sono insultati». È vero che a volte «qualcuno se lo merita», così come «se lo meritano» anche alcuni «preti e vescovi». Resta però il fatto che questo atteggiamento appaia ormai come un’«abitudine»: ecco allora quel «rosario di insulti e di parolacce, di squalificazioni…» che accompagnano i politici.
Da qui la domanda che suona anche come una provocazione: ma quell’uomo che ha responsabilità di governo nazionale o locale «lo lasciamo solo, senza chiedere che Dio lo benedica»?
La Scrittura, invece, parla chiaro: pregare «Per i re e per tutti quelli che stanno al potere». E perché? «Perché tutti noi possiamo vivere una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio». Quindi: «Pregare per ognuno di loro, perché possano portare avanti una vita calma, tranquilla, dignitosa nel loro popolo».
Un’esortazione quasi sempre disattesa: «Io sono sicuro che non si prega per i governanti. Sì, li si insulta, sì, quello sì. Sembrerebbe che la preghiera ai governanti sia insultarli perché “non mi piace quello che fa”, perché “è un corrotto”»… Sembra che lo spirito patriottico non arrivi alla preghiera; sì, alle squalificazioni, all’odio, alle liti, e finisce così».
Invece l’apostolo Paolo auspica che «in ogni luogo gli uomini preghino alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche». E, in questo, si ritrova un consiglio alla politica stessa: «Si deve discutere e questa è la funzione di un parlamento, si deve discutere ma non annientare l’altro; anzi si deve pregare per l’altro, per quello che ha un’opinione diversa dalla mia»…
«Mentre ascoltavo la Parola di Dio mi è venuto in mente questo fatto tanto bello del Vangelo, il governante che prega per uno dei suoi, questo centurione che prega per uno dei suoi». Significa che «anche i governanti devono pregare per il loro popolo», così come quel centurione pregava «per un servo, forse per un domestico» per il quale si sentiva responsabile. E anche «i governanti sono responsabili della vita di un Paese». Perciò «è bello pensare che se il popolo prega per i governanti, i governanti saranno capaci pure di pregare per il popolo, proprio come questo centurione che prega per il suo servo».
«Oggi sarebbe bello che ognuno di noi faccia un esame di coscienza: cosa penso io della politica?». E «non chiedo» di «discutere di politica», quanto invece: «Tu preghi per i governanti, tu preghi per i politici, perché possano portare avanti dignitosamente la loro vocazione»?
L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIX, n.210, 16-17/09/2019
14 settembre, festa dell’esaltazione della santa croce
Nm 21,4-9; Fil 2,6-11; Gv 3,13-18
Come il diavolo è stato vinto
«Non abbiamo paura di contemplare la croce come un momento di sconfitta»
«Oggi sarà bello se a casa, tranquilli, prendiamo cinque, dieci, quindici minuti davanti al crocifisso, o quello che abbiamo a casa o quello del rosario», per «guardarlo» e ricordare che «è il nostro segno di sconfitta che provoca le persecuzioni, che ci distruggono», ma «è anche il nostro segno di vittoria, perché Dio ha vinto lì».
«Oggi la Chiesa ci invita a contemplare la croce del Signore, la santa croce, che è il segno del cristiano». La croce «è quel segno che da bambini forse per primo abbiamo imparato a farci sul petto e le spalle, la santa croce di Dio». E «contemplare la croce per noi cristiani è contemplare un segno di sconfitta e un segno di vittoria, ambedue».
«La predica di Gesù, i miracoli di Gesù, tutto quello che Gesù aveva fatto nella vita, è finito in un “fallimento”, fallì lì, nella croce». «Tutte le speranze che i discepoli avevano in lui sono venute meno: noi speravamo che questo fosse il messia, ma è stato crocifisso». E «la croce è quel patibolo, quello strumento di tortura crudele. Lì è finita tutta la speranza della gente che seguiva Gesù. Una vera sconfitta».
«Non abbiamo paura di contemplare la croce come un momento di sconfitta, di fallimento» (vedi lettera di san Paolo ai Filippesi 2, 6-11, proposta come seconda lettura). «Paolo quando fa la riflessione sul mistero di Gesù Cristo ci dice cose forti, ci dice che Gesù svuotò se stesso, annientò se stesso, assunse tutto il peccato nostro, tutto il peccato del mondo: era uno “straccio”, un condannato». Dunque, «Paolo non aveva paura di far vedere questa sconfitta e anche questo può illuminare un po’ i nostri momenti brutti, i nostri momenti di sconfitta».
Ma la croce è anche «un segno di vittoria per noi cristiani». Tanto che «nella tradizione c’era quell’apparizione: “con questo segno tu vincerai”, segno di vittoria per noi». E «la lettura di oggi (vedi libro dei Numeri (21, 4-9, rilanciato anche dal brano evangelico di Giovanni 3, 13-17) parla del momento nel quale il popolo per la mormorazione è stato punito dai serpenti; parla dei serpenti come strumento di morte». E «dietro c’è la memoria di Israele, il serpente antico, quello del paradiso terrestre. Satana, il grande Accusatore. Era profetico perché ha detto il Signore a Mosè di alzare un serpente, alzare. Ma quello che ti dava la morte, quello che era peccato, tutto sarà alzato e questo darà la salute. Questa è una profezia».
«Gesù fatto peccato ha vinto l’autore del peccato, ha vinto il serpente». Satana, infatti, «era felice il venerdì santo, era felice; era tanto felice che non se n’è accorto che c’era il grande tranello della storia nel quale sarebbe caduto. Vide Gesù così disfatto, stracciato e come il pesce affamato che va all’esca attaccata all’amo lui è andato lì e ingoiò Gesù. Questo lo dicono i padri della Chiesa».
«La sua vittoria lo fece cieco, ingoiò questo “straccio”, questo Gesù distrutto. Era felice ma in quel momento ingoiò pure la divinità perché era l’esca attaccata all’amo col pesce. In quel momento Satana è distrutto per sempre. Non ha forza. La croce, in quel momento, divenne segno di vittoria».
«La nostra vittoria è la croce di Gesù, la sconfitta di quello che aveva preso su di sé tutti i nostri peccati, era quasi distrutto, tutte le nostre colpe; e la vittoria davanti al nostro nemico, al grande serpente antico, al grande Accusatore». Per questo «la croce è segno di vittoria per noi, nella croce siamo stati salvati, in quel percorso che Gesù ha voluto fare fino al più basso, al più basso, ma con la forza della divinità».
«“Quando sarò alzato, attirerò tutti a me”. Gesù alzato e Satana distrutto. La croce di Gesù deve essere per noi l’attrazione: guardarla, perché è la forza per continuare avanti». E «il serpente antico distrutto ancora abbaia, ancora minaccia, ma, come dicevano i padri della Chiesa, è un cane incatenato: non avvicinarti e non ti morderà; ma se tu vai ad accarezzarlo perché il fascino ti porta lì come fosse un cagnolino, preparati, ti distruggerà». E «così, con questa vittoria della croce, con Cristo risorto, che ci invia lo Spirito Santo, ci fa andare avanti, avanti, sempre; e quel cane incatenato, lì, al quale non devo avvicinarmi perché mi morderà, va la nostra vita avanti».
«La croce ci insegna questo, che nella vita c’è il fallimento e la vittoria». «Dobbiamo essere capaci di tollerare le sconfitte, di portarle con pazienza, le sconfitte, anche dei nostri peccati perché lui ha pagato per noi. Tollerarle in lui, chiedere perdono in lui ma mai lasciarci sedurre da questo cane incatenato».
da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.209, 15/09/2018
15 settembre Beata Maria Vergine Addolorata
Eb 5,7-9; Gv 19,25-27
Partorì la Chiesa
Maria sotto la croce di Gesù è un’icona da «contemplare»
Maria sotto la croce di Gesù è un’icona da «contemplare»: non servono tante parole per riconoscere l’essenza della testimonianza di «una donna» che è «madre di tutti noi».
«Questo passo del Vangelo è più per contemplare che per riflettere» (19, 25-27), proposto oggi dalla liturgia, che presenta Maria sotto la croce di Gesù. Sì, «contemplare la madre di Gesù, contemplare questo segno di contraddizione, perché Gesù è il vincitore ma sulla croce». E questa «è una contraddizione, non si capisce: ci vuole fede per capire» o «almeno per avvicinarsi a questo mistero». E la madre di Dio «sapeva», «perché tutta la vita ha vissuto con l’anima trafitta, l’aveva detto Simeone». E «seguiva Gesù e sentiva le parole che la gente diceva: “Che grande!” — “Ma questo non è di Dio!” — “Questo no, non è un vero credente!”». Maria «sentiva tutto: tutte le parole pro e contro» Gesù.
Del resto Maria era «sempre dietro a suo Figlio: per questo diciamo che è la prima discepola». E «sempre con l’inquietudine che faceva nascere nel suo cuore questo segno di contraddizione». Sempre fino «alla fine è lì, in piedi, guardando il Figlio». E «forse, lei sentì i commenti: “Guarda, quella è la madre di uno dei tre delinquenti”». Ma rimase «zitta: è la madre, non rinnegò il Figlio, mostrò la faccia per il Figlio».
«Questo che io dico adesso sono piccole parole per aiutare a contemplare, in silenzio, questo mistero: in quel momento, lei partorì tutti noi, partorì la Chiesa». Gesù chiama sua madre «donna» e le dice «ecco i tuoi figli». Sì, Gesù «non dice “madre”, dice “donna”». E Maria è una «donna forte, coraggiosa: una donna che era lì per dire “questo è mio Figlio: non Lo rinnego”».
Siamo invitati «soltanto, in silenzio, a contemplare, a guardare: che sia lo Spirito Santo a dire a ognuno di noi quello di cui abbiamo bisogno».
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVII, n.212, 16/09/2017)
Giovedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
1Tm 4,12-16; Lc 7,36-50
Il ministero è un dono non una funzione
“Dalla mancanza di contemplazione del dono scaturiscono tutte quelle deviazioni, dalle più brutte a quelle più quotidiane”
Il ministero ordinato è un dono del Signore, «che ci ha guardati e ci ha detto “Seguimi”», prima che un servizio, e non certo «una funzione» o «un patto di lavoro». Papa Francesco … invita tutti, e anche sé stesso, a riflettere sulla prima lettera di san Paolo a Timoteo, proposta dalla liturgia, centrandola sulla parola «dono», sul ministero come dono da contemplare, seguendo il consiglio di Paolo al giovane discepolo: «Non trascurare il dono che è in te».
«Non è un patto di lavoro “Io devo fare”, il fare è in secondo piano; io devo ricevere il dono e custodirlo come dono e da lì scaturisce tutto, nella contemplazione del dono». Quando dimentichiamo questo «ci appropriamo del dono e lo trasformiamo in funzione, si perde il cuore del ministero, si perde lo sguardo di Gesù che ha guardato tutti noi e ci ha detto: “Seguimi”, si perde la gratuità».
«Da questa mancanza di contemplazione del dono, del ministero come dono, scaturiscono tutte quelle deviazioni che noi conosciamo, dalle più brutte, che sono terribili, a quelle più quotidiane, che ci fanno centrare il nostro ministero in noi stessi e non nella gratitudine del dono e nell’amore verso Colui che ci ha dato il dono, il dono del ministero».
Un dono come dice Paolo «conferito mediante una parola profetica con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri» e che vale per i vescovi ma anche «per tutti i sacerdoti» perché «è stato un dono della comunità presbiterale». Quindi «l’importanza della contemplazione del ministero come dono e non come funzione». Facciamo quello che possiamo, con buona volontà, intelligenza, «anche con furbizia», ma sempre per custodire questo dono, «per non trascurarlo».
Dimenticare la centralità di un dono è una cosa umana, e porta l’esempio del fariseo che nel Vangelo di Luca ospita Gesù nella sua casa, trascurando «tante regole di accoglienza», trascurando i doni. Gesù glielo fa notare, indicando la donna che dona tutto quello che l’ospite ha dimenticato: l’acqua per i piedi, mentre lei «mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i capelli», il bacio di accoglienza, «lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi», e l’unzione del capo con l’olio.
«C’è quest’uomo che era buono un fariseo buono ma aveva dimenticato il dono della cortesia, il dono della convivenza, che pure è un dono». «Sempre si dimenticano i doni quando c’è qualche interesse dietro, quando io voglio fare questo, fare, fare… Noi sacerdoti, tutti noi dobbiamo fare cose e il primo compito è annunciare il Vangelo, ma occorre custodire il centro, la fonte, da dove scaturisce questa missione, che è proprio il dono che abbiamo ricevuto gratuitamente dal Signore».
Che il Signore «ci aiuti a custodire il dono, a vedere il nostro ministero primariamente come un dono, poi un servizio», per non rovinarlo «e non diventare ministri imprenditori, faccendieri», e tante cose che allontanano dalla contemplazione del dono e dal Signore, «che ci ha dato il dono del ministero».
(da: http://www.osservatoreromano.va)
Venerdì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
1Tm 6,2-12; Lc 8,1-3
Le quattro vicinanze del pastore
Ieri al centro di questi consigli vi era l’esortazione a non trascurare il «ministero come un dono». Oggi il cuore della riflessione è il denaro, ma anche il pettegolezzo, «le chiacchiere, le discussioni stupide», tutte cose che indeboliscono la vita ministeriale. «Quando un ministro — sia sacerdote, diacono, vescovo — incomincia ad attaccarsi ai soldi», si lega alla radice di tutti i mali. Paolo ricorda, appunto, che l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali (1 Tm 6, 2c-12). «Il diavolo entra dalle tasche», dicevano «le vecchiette del mio tempo».
Vediamo i consigli che l’apostolo Paolo dà a Timoteo e a tutti i ministri nelle due Lettere. A essere vicini sono, infatti, chiamati non solo i vescovi ma anche sacerdoti e diaconi. Sono quattro le “vicinanze”. Prima di tutto il vescovo «è un uomo di vicinanza a Dio». Quando gli apostoli per meglio servire vedove e orfani hanno “inventato” i diaconi, per spiegarlo Pietro afferma che «a noi», cioè agli Apostoli, spetta «la preghiera e l’annuncio della Parola». «Il primo compito di un vescovo» è dunque pregare: «dà la forza», spiega, e risveglia anche «la coscienza di questo dono, che non dobbiamo trascurare, che è il ministero».
La seconda vicinanza alla quale è chiamato il vescovo è quella ai suoi sacerdoti e diaconi, i suoi collaboratori, che sono i vicini più prossimi. «Tu devi amare prima il più prossimo, che sono i tuoi sacerdoti e i tuoi diaconi». «È triste quando un vescovo si dimentica dei suoi sacerdoti. È triste sentire lamentele di sacerdoti che ti dicono: “Ho chiamato il vescovo, ho bisogno di un appuntamento per dire qualcosa, e la segretaria m’ha detto che tutto è pieno fino a tre mesi…”». «Un vescovo che sente questa vicinanza ai sacerdoti, se vede che un sacerdote lo ha chiamato oggi, al massimo domani dovrebbe richiamarlo, perché lui ha il diritto di conoscere, di sapere che ha un padre. Vicinanza ai sacerdoti. E i sacerdoti, vivano la vicinanza tra loro, non le divisioni. Il diavolo entra lì per dividere il presbiterio, per dividere».
Così infatti iniziano i gruppetti che «dividono per ideologie», «per simpatie».
Infine, la quarta vicinanza è quella al popolo di Dio. «Nella seconda Lettera, Paolo incomincia, dicendo a Timoteo di non dimenticarsi la sua mamma e la sua nonna, cioè di non dimenticarsi da dove sei uscito, da dove il Signore ti ha tolto. Non dimenticarti del tuo popolo, non dimenticarti delle tue radici! E adesso, come vescovo e come sacerdote, occorre essere sempre vicino al popolo di Dio», perché «quando un vescovo si stacca dal popolo di Dio finisce in un’atmosfera di ideologie che non hanno niente a che fare con il ministero: non è un ministro, non è un servitore. Ha dimenticato il dono — gratuito — che gli è stato dato».
«Bisogna pregare per i sacerdoti e per i vescovi, perché tutti noi — il Papa è un vescovo — sappiamo custodire il dono — non trascurare questo dono che ci è stato dato — con questa vicinanza».
(da: http://www.osservatoreromano.va)
Sabato della XXIV settimana del Tempo Ordinario
Luca 8,4-15
La parabola del seminatore la “madre” di tutte le parabole
Gesù racconta a una grande folla la parabola – che tutti conosciamo bene – del seminatore, che getta la semente su quattro tipi diversi di terreno. La Parola di Dio, simboleggiata dai semi, non è una Parola astratta, ma è Cristo stesso, il Verbo del Padre che si è incarnato nel grembo di Maria. Pertanto, accogliere la Parola di Dio vuol dire accogliere la persona di Cristo, lo stesso Cristo.
Ci sono diversi modi di ricevere la Parola di Dio. Possiamo farlo come una strada, dove subito vengono gli uccelli e mangiano i semi. Questa sarebbe la distrazione, un grande pericolo del nostro tempo. Assillati da tante chiacchiere, da tante ideologie, dalle continue possibilità di distrarsi dentro e fuori di casa, si può perdere il gusto del silenzio, del raccoglimento, del dialogo con il Signore, tanto da rischiare di perdere la fede, di non accogliere la Parola di Dio. Stiamo vedendo tutto, distratti da tutto, dalle cose mondane.
Un’altra possibilità: possiamo accogliere la Parola di Dio come un terreno sassoso, con poca terra. Lì il seme germoglia presto, ma presto pure si secca, perché non riesce a mettere radici in profondità. È l’immagine di quelli che accolgono la Parola di Dio con l’entusiasmo momentaneo che però rimane superficiale, non assimila la Parola di Dio. E così, davanti alla prima difficoltà, pensiamo a una sofferenza, a un turbamento della vita, quella fede ancora debole si dissolve, come si secca il seme che cade in mezzo alle pietre.
Possiamo, ancora – una terza possibilità di cui Gesù parla nella parabola – accogliere la Parola di Dio come un terreno dove crescono cespugli spinosi. E le spine sono l’inganno della ricchezza, del successo, delle preoccupazioni mondane… Lì la Parola cresce un po’, ma rimane soffocata, non è forte, muore o non porta frutto.
Infine – la quarta possibilità – possiamo accoglierla come il terreno buono. Qui, e soltanto qui il seme attecchisce e porta frutto. La semente caduta su questo terreno fertile rappresenta coloro che ascoltano la Parola, la accolgono, la custodiscono nel cuore e la mettono in pratica nella vita di ogni giorno.
Questa del seminatore è un po’ la “madre” di tutte le parabole, perché parla dell’ascolto della Parola. Ci ricorda che essa è un seme fecondo ed efficace; e Dio lo sparge dappertutto con generosità, senza badare a sprechi. Così è il cuore di Dio! Ognuno di noi è un terreno su cui cade il seme della Parola, nessuno è escluso. La Parola è data a ognuno di noi. Possiamo chiederci: io, che tipo di terreno sono? Assomiglio alla strada, alla terra sassosa, al roveto? Se vogliamo, con la grazia di Dio possiamo diventare terreno buono, dissodato e coltivato con cura, per far maturare il seme della Parola. Esso è già presente nel nostro cuore, ma il farlo fruttificare dipende da noi, dipende dall’accoglienza che riserviamo a questo seme. Spesso si è distratti da troppi interessi, da troppi richiami, ed è difficile distinguere, fra tante voci e tante parole, quella del Signore, l’unica che rende liberi. Per questo è importante abituarsi ad ascoltare la Parola di Dio, a leggerla. E torno, una volta in più, su quel consiglio: portate sempre con voi un piccolo Vangelo, un’edizione tascabile del Vangelo, in tasca, in borsa… E così, leggete ogni giorno un pezzetto, perché siate abituati a leggere la Parola di Dio, e capire bene qual è il seme che Dio ti offre, e pensare con quale terra io lo ricevo.
La Vergine Maria, modello perfetto di terra buona e fertile, ci aiuti, con la sua preghiera, a diventare terreno disponibile senza spine né sassi, affinché possiamo portare buoni frutti per noi e per i nostri fratelli.
Angelus 16 luglio 2020