XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Luca 10, 1-12. 17-20

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. (…)
(Letture: Isaia 66, 10-14; Salmo 65; Galati 6, 14-18; Luca 10, 1-12. 17-20)


Non la forza ma un “di più” di bene per opporci al male
Ermes Ronchi

La messe è abbondante, ma sono pochi quelli che vi lavorano. Gesù semina occhi nuovi per leggere il mondo: la terra matura continuamente spighe di buonissimo grano. Insegna uno sguardo nuovo sull’uomo di sempre: esso è come un campo fertile, lieto di frutti abbondanti.
Noi abbiamo sempre interpretato questo brano come un lamento sulla scarsità di vocazioni sacerdotali o religiose. Ma Gesù dice intona la sua lode per l’umanità: il mondo è buono. C’è tanto bene sulla terra, tanto buon grano. Il seminatore ha seminato buon seme nei cuori degli uomini: molti di essi vivono una vita buona, tanti cuori inquieti cercano solo un piccolo spiraglio per aprirsi verso la luce, tanti dolori solitari attendono una carezza per sbocciare alla fiducia.
Gesù manda discepoli, ma non a intonare lamenti sopra un mondo distratto e lontano, bensì ad annunciare un capovolgimento: il Regno di Dio si è fatto vicino, Dio è vicino.
Guardati attorno, il mondo che a noi sembra avvitato in una crisi senza uscita, è anche un immenso laboratorio di idee nuove, di progetti, esperienze di giustizia e pace. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo, che cresce verso più consapevolezza, più libertà, più amore e più cura verso il creato. Di tutto questo lui ha gettato il seme, nessuno lo potrà sradicare dalla terra.
Manca però qualcosa, manca chi lavori al buono di oggi. Mancano operai del bello, mietitori del buono, contadini che sappiano far crescere i germogli di un mondo più giusto, di una mentalità più positiva, più umana. A questi lui dice: Andate: non portate borsa né sacca né sandali… Vi mando disarmati. Decisivi non sono i mezzi, decisive non sono le cose. Solo se l’annunciatore sarà infinitamente piccolo, l’annuncio sarà infinitamente grande (G. Vannucci).
I messaggeri vengono portando un pezzetto di Dio in sé. Se hanno Vangelo dentro lo irradieranno tutto attorno a loro. Per questo non hanno bisogno di cose.
Non hanno nulla da dimostrare, hanno da mostrare il Regno iniziato, Dio dentro. Come non ha nulla da dimostrare una donna incinta: ha un bambino in sé ed è evidente a tutti che vive due vite, che porta una vita nuova. Così accade per il credente: egli vive due vite, nella sua porta la vita di Dio.
Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. E non vuol dire: vi mando al macello. Perché ci sono i lupi, è vero, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Vi mando come presenza disarmata, a combattere la violenza, ad opporvi al male, non attraverso un “di più” di forza, ma con un “di più” di bontà. La bontà che non è soltanto la risposta al male, ma è anche la risposta al non-senso della vita (P. Ricoeur).

Gli inviati del Signore 
Enzo Bianchi

Quando Luca ricorda e racconta questa pagina del suo vangelo, ha davanti a sé la fervente missione dei primi cristiani che andavano di città in città nel bacino del Mediterraneo, annunciando con un certo successo la buona notizia. Sì, è il Kýrios, il Signore che agisce con potenza, per questo anche nel racconto l’evangelista designa Gesù appunto con questo titolo.

Gesù aveva già inviato i Dodici (cf. Lc 9,1-6), da lui scelti e chiamati apóstoloi, missionari-inviati, ma ora ne invia altri settantadue, tanti quanti il numero delle genti abitanti la terra secondo la tavola delle nazioni di Genesi 10 (nella versione greca dei LXX). Li invia davanti a sé come precursori e preparatori della sua prossima venuta: quello che Giovanni il Battista aveva fatto prima che Gesù si manifestasse a Israele (cf. Lc 3,1-18), ora lo fanno i discepoli, affinché il Signore trovi i cuori pronti ad accogliere la buona notizia del regno di Dio.

Questa missione, come le altre fatte da Gesù, abbisognava di uomini che in realtà non c’erano o non erano sufficienti: il campo del mondo è vasto, mentre i possibili inviati sono pochi. Gesù intravede la messe abbondante, i campi che biondeggiano, ma constata la scarsità degli operai che dovranno mietere. È stato così al tempo di Gesù, è stato così lungo la storia della chiesa, è così anche oggi! Nessuno pensi che vi siano stati tempi con abbondanza di inviati: se mai, vi sono stati tempi favorevoli all’arruolamento di “mercenari”, di mietitori poco convinti del lavoro, che lo facevano senza essere stati inviati dal Signore… A volte c’è ressa sul cammino della mietitura, ma non è detto che poi la mietitura sia abbondante, né che gli inviati siano capaci di mietere.

Per questo occorre pregare Dio affinché sia lui a chiamare e a mandare operai, perché la messe o la vigna è sua e non tutti quelli che vi lavorano sono stati chiamati. Occorre pregare, sì pregare, affinché il Signore con il suo Spirito chiami, non inventarsi missioni che il Signore non si è mai sognato di affidarci, non imponendo a qualcuno una missione che lo renderà non un santo, ma un miserabile in più! La chiamata di un missionario avviene a causa della preghiera della chiesa, la missione deve sempre scaturire dalla preghiera (cf. Lc 6,12-13), il lavoro della mietitura va fatto nella preghiera.

Ecco allora il mandato che dice cosa fa e quale stile deve adottare l’inviato di Gesù, ma ci fa anche capire perché gli operai sono pochi… Com’è possibile che siano molti quelli a cui è chiesto ciò che Gesù chiede? Se fossero molti, ci sarebbe da dubitare sulla loro reale conformità a queste esigenze radicali. Gesù manda i discepoli a due a due, perché vivano innanzitutto in comunione e siano l’uno sostegno per l’altro, l’uno regola all’altro nelle tentazioni; due a due affinché la missione non sia un’azione di uomini singolari e individualisti. Li invia come pecore tra i lupi, cioè inermi, deboli, fragili, consapevoli di stare in mezzo a coloro che si oppongono al Vangelo di Gesù Cristo; pecore tra i lupi anche per testimoniare che così gli inviati preparano quel giorno escatologico in cui “il lupo dimorerà insieme con l’agnello” (Is 11,6).

Gesù si ferma a spiegare in modo particolare lo stile del discepolo inviato da lui, il Signore, e da lui totalmente dipendente. Non sarà come alcuni missionari farisei, né come i filosofi itineranti, né come i rabbini visitatori. Sarà piuttosto come il levita del salmo 16, che nella sua povertà proclama: “Il Signore è mia porzione e mio calice” (v. 5), perché confiderà solo nel Signore. Sarà povero, non misero, ma senza denaro con sé, senza assicurazioni per il viaggio, e attuerà innanzitutto un contatto cellulare, entrando nelle case, incontrando sulle strade quelli che cercano la vita piena. A costoro, “figli della pace”, della vita in pienezza, gli inviati augureranno lo shalom, la pace, e con loro entreranno in rapporti umanissimi: mangiando e bevendo alla loro tavola, senza l’ossessione della purità delle persone e dei cibi… In tutti gli inviati deve regnare e manifestarsi la gratuità, che essi mostreranno anche prendendosi cura gratuitamente degli altri, curando i malati nel corpo nella mente e nello spirito e annunciando a tutti che il regno di Dio si è avvicinato.

Ciò che stupisce in questo invio dei discepoli è che Gesù non chiede di compiere grandi cose, portenti, ma di vivere umanamente i rapporti, infondendo in tutti la fiducia e la speranza che è possibile far regnare Dio nelle nostre povere vite. Messaggio brevissimo – “Il regno di Dio si è avvicinato” –, comportamento esigente, che deve fare segno a lui, Gesù, il povero, il mite, l’amico dei pubblicani e dei peccatori, venuto per servire e per spendere la vita per gli umani tutti. Si tratta di vivere come Gesù che, “da ricco che era, si è fatto povero per noi” (cf. 2Cor 8,9); come Gesù che, da santo che era, è andato ad alloggiare presso i peccatori (cf. Lc 19,7); come Gesù, che annunciò lo shalom quale buona notizia (cf. At 10,36).

Vi è inoltre un avvertimento che nasce dall’esperienza della chiesa nascente: il missionario, il predicatore, dov’è accolto cerchi di restare. Perché questa precisazione? Perché sono i poveri che accolgono più facilmente, mentre i ricchi accolgono chi hanno conosciuto, dunque il rischio per un missionario è quello di iniziare tra i poveri e finire tra i ricchi, soprattutto se si mostra ricco di doni… Può anche darsi che il missionario abbia un certo successo, che il suo ministero gli procuri possibilità e attenzioni da parte di molti, tra i quali quelli che contano, i ricchi. Il missionario inviato a tutti, proprio a tutti, incontra tutti, ma vigili per non finire per essere solidale e amico di chi conta, ma lontano dai poveri e dai semplici credenti quotidiani.

Si dà però anche la possibilità di non essere accolti da una città, da alcuni. In tal caso nessuna vendetta, nessuna offesa, nessun rancore: nella libertà, l’inviato scuoterà la polvere dai suoi piedi, esprimendo con quel gesto di non volere neppure la polvere di quella gente. Certo, nel giorno del giudizio sarà il Signore a giudicare, e invocando quel giorno Gesù si rivolge soprattutto alla città che ha amato e dove ha scelto di risiedere durante il suo ministero pubblico: Cafarnao. Gesù amava quella città e quanti la abitavano, ma proprio in essa aveva registrato il fallimento della sua missione in Galilea. Per questo la avverte: l’antico oracolo del profeta Isaia contro Babilonia (cf. Is 14,13-15), potrà riguardare anche lei (cf. Lc 10,15)! Queste parole di Gesù successive all’invio sono il suo lamento per il suo amore frustrato proprio dalle città destinatarie della sua missione, predicazione e azione liberatrice.

In seguito i settantadue, andati nelle città e svolto il loro mandato, ritornano da Gesù pieni di gioia, perché sono riusciti a togliere terreno a Satana, dominando sulle forze malefiche e demoniache. Gesù allora sente dentro di sé la verità della sua missione: Satana che cade per l’azione non solo sua, ma anche di quelli che ha inviato e ai quali ha dato dýnamis, forza. Ma i discepoli – dice loro Gesù – non siano nella gioia a causa del potere ricevuto o del bene che compiono, bensì a causa della comunione che hanno con Gesù stesso, ora sulla terra e poi nel regno di Dio (“i nomi scritti nei cieli”…). La vera speranza dei discepoli-missionari non va riposta nella riuscita della missione ma nella comunione di vita con il Signore, dal quale nessuno di loro potrà mai essere separato: nessun fallimento, nessuna persecuzione, neppure la morte potrà separare gli inviati dall’amore di Cristo (cf. Rm 8,35.37)!

Questa pagina evangelica può sembrarci radicale, severa nelle richieste relative allo stile missionario, ma in verità per ogni inviato si tratta di essere figlio nel Figlio, vivendo la missione che il Figlio stesso ha ricevuto dal Padre quando è stato da lui inviato nel mondo. Basta riferirsi alla missione di Gesù e non inventarci noi delle missioni, soprattutto in un clima come quello attuale: si è così tesi all’evangelizzazione degli altri che non si guarda più se l’inviato è evangelizzato o no, se assomiglia al suo Signore o se invece è preoccupato del numero degli ascoltatori e del risultato della sua propaganda del prodotto…

Pochi lavorano
Paolo Curtaz

Un’altra storia

Israele credeva che il mondo fosse composto da settantadue nazioni: ogni anno al tempio di Gerusalemme si immolavano settanta buoi per la conversione delle nazioni pagane.

Gesù invia a tutto il mondo, alle settantadue nazioni, i discepoli. Non si ferma a pregare per la loro conversione. Non si lamenta della deriva che sta prendendo la Storia, della brutta piega degli eventi. Agisce: invia discepoli credibili per proporre a tutti il cambiamento di vita.
Decisamente un’altra storia.

Ed è interessante notare una sfumatura nella nuova traduzione liturgica del testo: non si parla di pochi operai ma di pochi che lavorano.
Gli operai sono tanti, fin troppo, preti, suore, religiosi, catechisti, laici impegnati. Ma quanti fra noi, davvero, hanno il fuoco che brucia dentro dal desiderio di raccontare Cristo? Di viverlo? Di renderlo presente e accessibile? Quanti fra noi (scrivente in primis, principe dei somari) hanno fatto delle parole del Vangelo il proprio stile di vita sì da essere credibili e creduti?

Quand’anche fossimo stracolmi di preti e laici impegnati ma non avessimo chi lavora, non cambierebbe molto… Se, alla fine, non riusciamo a comunicare l’amore che abbiamo scoperto (che stiamo cercando, che ci abita, che ci affascina), diventiamo solo dei funzionari del sacro.
Annunciare, quindi. Ed è difficile. Parlare di Gesù ai cristiani, terribile! Sanno già tutto.
Ma si può fare.

Stile

I discepoli sono mandati a due a due, precedendo il Signore.
Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori.
A noi, solo, il compito di preparargli la strada.

In coppia veniamo mandati: l’annuncio non è atteggiamento carismatico di qualche guru, ma dimensione di comunità che si costruisce, fatica nello stare insieme.

E ci chiede di pregare: non per convincere Dio a mandare operai (è esattamente ciò che egli vuole!) ma per convincere noi discepoli a diventare finalmente evangelizzatori!
L’annuncio è fecondato dalla preghiera: perché non diventare silenziosi terroristi di bene, seminando benedizioni e preghiere segrete là dove lavoriamo?
Affidando al Signore, invece di giudicare?

Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all’essenziale. Lo so, amiche catechiste: il corso di nuoto o la settimana bianca sono mille volte più attraenti della vostra stentata ora di catechismo. Ma voi avete una cosa che a nessun allenatore è chiesta: l’amore verso i vostri ragazzi.

E ci avvisa, Siamo pecore in mezzo a lupi, e quanto profetica sta diventando questa parola nel nostro mondo intriso di rabbia! A patto di non diventare anche noi lupacchiotti in attesa che i lupi si convertano.

Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l’arroganza dell’annuncio ci allontana da Dio in maniera definitiva.

Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità.
Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l’ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli uomini sono proprio le nostre, esattamente le nostre.

Gioite!

È faticoso e crocifiggente, lo so.
Lo sa anche Paolo che, pur convertendo il bacino del Mediterraneo, sente tutto il limite del suo carattere. Lo sa anche Paolo che chiarisce anche a noi che il problema non sono le regole (nel suo caso la circoncisione) ma l’essere nuova creatura. E noi, prutroppo, veniamo percepiti come i garanti delle regole.

Come Isaia, siamo chiamati a incoraggiare gli esiliati di ritorno da Babilonia, a volare alto, a sognare in grande, a costruire il sogno di Dio che è la Chiesa. E pazienza per i risultati che mancano: è un’epoca di profezia, la nostra. È tempo di semina, non di raccolto.

Allora potremo davvero sperimentare la gioia dell’annuncio, la gioia di vedere che Dio, sul serio!, passa attraverso le nostre piccole e balbettanti parole, vedere che la Parola si veste delle nostre piccole riflessioni.
Quale gioia proviamo nel vedere altri condividere la nostra stessa fede!

Riflettevo, stamani: questa mia riflessione è letta o vista, all’incirca, da cinquantamila persone.
Se dodici pescatori di Galilea hanno incendiato d’amore il mondo, cosa potremmo fare noi?

Smettiamola di restare impantanati nella routine, superiamo le paure del mondo, non valutiamo i risultati come un’azienda del sacro: gioiamo amici, i nostri nomi sono scritti nei cieli, Dio già colma i nostri cuori e ci affida il Regno.

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