IV domenica di Quaresima – Anno C
Lc  15,1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto (…).
(Letture: Giosuè 5,9-12; Salmo 33; 2 Corinzi 5,17-21; Luca 15,1-3.11-32)


La gioia di Dio
Clarisse Sant’Agata

Siamo giunti nel cuore del cammino quaresimale e in questa domenica l’invito che ci viene rivolto dalla liturgia è un invito alla gioia. E’ la domenica in “laetare” quella che celebriamo oggi, un invito costante alla gioia che ci conduce alla Pasqua. Ma quella che traspare dalla liturgia della parola, più che la nostra, è la gioia di Dio perché, con la Pasqua del suo Unigenito, tutti i suoi figli ritornano a casa.

Ed è di questo partire e tornare che ci parla l’evangelo di oggi, di questa lunga attesa di un Padre che non desiste fino a quando tutti i suoi figli non sono in casa con Lui. L’evangelo di oggi si apre con uno squarcio su chi sono coloro che ascoltano la parabola che Gesù racconta e quale è la situazione che fa da cornice a questa parabola: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». Allora egli disse loro questa parabola…” (Lc 1,1). Gesù accoglie i pubblicani e mangia con loro: questo crea disagio in coloro che lo seguono e lo ascoltano perché non riconoscono in questo gesto l’icona del Dio che adorano e seguono. In realtà, accogliere i peccatori e soprattutto mangiare con loro, sono i gesti che Gesù ripeterà fino alla fine, fino all’ultima cena con i suoi discepoli: con coloro che fuggiranno via e che lo consegneranno egli condivide la mensa e a loro dona se stesso come icona di suo Padre che, donandoci suo figlio, ci consegna tutto quanto ha per vivere. Questo modo di fare di Gesù, fa vicini coloro che sono lontani, innescando un movimento reciproco: Lui si avvicina ai peccatori e loro si fanno vicini a Lui: è così che viene colmata la lontananza del peccato di Adamo.

La parabola che ci racconta oggi l’evangelo è l’ultima di tre parabole con le quali Gesù vuole mostrare il volto di suo Padre. E’ la più lunga ed articolata, quasi fosse una vera e propria storia della salvezza nella quale, l’unico che rimane fedele a se stesso e al suo incrollabile amore per i suoi figli è il Padre. E’ Lui l’unico che non lascia mai la casa se non per riaccogliere il figlio minore ritornato e per tentare di far rientrare in casa il figlio maggiore che, scandalizzato per il suo modo di riaccogliere chi se n’è andato sperperando tutto, non vuole entrare. Il Padre e la casa sono i due centri irremovibili di questo racconto, sono ciò che rimane indipendentemente dal nostro fuggire lontano o dal nostro apparente rimanere vicini, ma come servi: rimangono perché il Padre e la sua casa, il suo Regno, sono per noi, esistono perché amano e attendono perché ci amano.

Il figlio minore è colui che si allontana anche concretamente. Lascia la casa convinto che la sua identità può esistere e rimanere salda anche senza suo Padre: “Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto”. Reclama come sua proprietà, come la parte che gli spetta, quella “sostanza” che chiede al Padre di dividere. Ciò che crede gli appartenga e gli spetti è l’essere della stessa sostanza del Padre. Due i passi che, in apparente contrasto fra loro, ci illuminano su questa presa di possesso del figlio minore: il primo è raccontato al capitolo 3 della Genesi, quando Adamo ed Eva decidono di appropriarsi di ciò che gli era stato dato in dono, convinti che rimanere nel dono li faceva schiavi, mentre appropriarsene li rende come Dio: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò” (Gn 3).

Il secondo passo invece ci racconta il movimento contrario, la vicenda di Colui che, “pur essendo di natura divina, non considerò una proprietà l’essere uguale a Dio, ma spogliò se stesso…”, si svuota fino alla morte di croce (Fil 2).

Appropriarsi di tutto e allontanarsi da Colui che ce lo dona lasciando Lui e la sua casa, conduce inevitabilmente a disperdere il dono e a vivere senza salvezza: “Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci”. Solo a questo punto, arrivato a vivere nella condizione degli schiavi il figlio si accorge per la fame e il bisogno che ha dimenticato quell’unica casa nella quale anche gli schiavi non vivono così. Ed è la memoria, oltre il bisogno, che spinge a tornare, anche se come servo.

Mai avrebbe osato immaginare un Padre che lo attende, gli corre incontro, non lo lascia parlare, non fa il conto di quello che ha dilapidato, ma lo ricolma di molto di più di tutto quello che aveva preteso da Lui come fosse suo: lo riveste, calza i suoi piedi, gli mette l’anello al dito, prepara il banchetto con il vitello ingrassato e invita tutti alla festa. Come non pensare che proprio questi sono i gesti che “al contrario” compie il Figlio unigenito nell’ultima cena: “Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13). Beati dunque gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello, perché è vero, come dice Paolo nella lettera ai romani, che questo banchetto era stato preparato per noi mentre eravamo ancora peccatori.

Ma per il Padre non è ancora compiuto il suo “esodo”, non ha ancora finito di uscire a cercare i suoi figli, perché, tornato Colui che si era allontanato dalla casa, si allontana colui che era rimasto in casa; ed è sempre Lui ad uscire incontro a chi rifiuta di essere figlio e fratello, a chi scandaglia il peccato e la sua gravità e pesa la misericordia sulla bilancia della giustizia lasciando che questo cancelli nel suo cuore il volto del Padre e del fratello: “si indignò e non voleva entrare”. E la gioia di stare nella casa con il Padre, diventa la fatica di servirlo da tanti anni senza alcuna ricompensa, diventa il lamento che troviamo anche nella parabola dei servi nella vigna che mormorano contro il padrone buono perché, alla fine della giornata ricevono la stessa paga di coloro che sono stati chiamati all’ultima ora.

La chiamata per tutti noi in questa domenica, sia che siamo tra coloro che si sono allontanati dal Padre, sia che siamo tra coloro che continuano a servirlo, è a fissare lo sguardo su di Lui, sulla sua gioia incontenibile che tutti i suoi figli siano invitati alla festa, sul suo continuo uscire incontro a noi ovunque ci troviamo. Solo così potremo vivere la gioia alla quale la liturgia di oggi ci invita, gioia che prima che nostra e sua: è la gioia di Dio.

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Dio perdona con una carezza, un abbraccio, una festa
Ermes Ronchi

Un padre aveva due figli. Ogni volta questo inizio, semplicissimo e favoloso, mi affascina, come se qualcosa di importante stesse di nuovo per accadere. Nessuna pagina al mondo raggiunge come questa la struttura stessa del nostro vivere con Dio, con noi stessi, con gli altri. L’obiettivo di questa parabola è precisamente quello di farci cambiare l’opinione che nutriamo su Dio.

Io voglio bene al prodigo. Il prodigo è legione ed è storia. Storia di umanità ferita eppure incamminata. Felix culpa che gli ha permesso di conoscere più a fondo il cuore del Padre.

Se ne va, un giorno, il più giovane, in cerca di se stesso, in cerca di felicità. La casa non gli basta, il padre e il fratello non gli bastano. E forse la sua ribellione non è che un preludio ad una dichiarazione d’amore. Quante volte i ribelli in realtà sono solo dei richiedenti amore.

Cerca la felicità nelle cose, ma si accorge che le cose hanno un fondo e che il fondo delle cose è vuoto. Il prodigo si ritrova un giorno a pascolare i porci: il libero ribelle è diventato un servo, a disputarsi il cibo con le bestie.

Allora ritorna in sé, dice il racconto, chiamato da un sogno di pane (la casa di mio padre profuma di pane…) Ci sono persone nel mondo con così tanta fame che per loro Dio non può avere che la forma di un Pane (Gandhi).

Non torna per amore, torna per fame. Non torna perché pentito, ma perché ha paura e sente la morte addosso.

Ma a Dio non importa il motivo per cui ci mettiamo in viaggio. È sufficiente che compiamo un primo passo. L’uomo cammina, Dio corre. L’uomo si avvia, Dio è già arrivato. Infatti: il padre, vistolo di lontano, gli corse incontro… E lo perdona prima ancora che apra bocca, di un amore che previene il pentimento. Il tempo della misericordia è l’anticipo.

Si era preparato delle scuse, il ragazzo, continuando a non capire niente di suo padre. Niente di Dio, che perdona non con un decreto, ma con una carezza (papa Francesco). Con un abbraccio, con una festa. Senza guardare più al passato, senza rivangare ciò che è stato, ma creando e proclamando un futuro nuovo. Dove il mondo dice “perduto”, Dio dice “ritrovato”; dove il mondo dice “finito”, Dio dice “rinato”.

E non ci sono rimproveri, rimorsi, rimpianti. Il Padre infine esce a pregare il figlio maggiore, alle prese con l’infelicità che deriva da un cuore non sincero, un cuore di servo e non di figlio, e tenta di spiegare e farsi capire, e alla fine non si sa se ci sia riuscito.

Un padre che non è giusto, è di più: è amore, esclusivamente amore.
Allora Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così esagerato? Sì, il Dio in cui crediamo è così. Immensa rivelazione per cui Gesù darà la sua vita.

L’amore frustrato del Padre
Enzo Bianchi

L’itinerario quaresimale che in questa anno liturgico C compiamo attraverso l’ascolto del vangelo secondo Luca è tutto teso all’annuncio della nostra conversione e della misericordia di Dio, che suscita in noi la conversione attraendoci verso “Dio” stesso, che “è amore” (1Gv 4,8.16). Di questa misericordia infinita si fa interprete Gesù con azioni, comportamenti, parole e parabole suscitate alcune volte da quanti non sono giunti a tale conoscenza di Dio, preferendo fermarsi al culto, ai sacrifici, alla liturgia come mezzi per avvicinarsi a lui (cf. Os 6,6).

Eccoci così all’inizio del capitolo 15, dove Luca racconta che i pubblicani, cioè coloro che erano manifestamente peccatori, gente perduta, venivano ad ascoltare Gesù. Perché costoro erano attirati da Gesù, mentre fuggivano dai sacerdoti e dai fedeli zelanti? Perché sentivano che questi ultimi non andavano a cercarli, non li amavano, ma li giudicavano e li disprezzavano. Gesù invece aveva un altro sguardo: quando vedeva un peccatore pubblico, lo considerava come un uomo, uno tra tutti gli uomini (tutti peccatori!), uno che era peccatore in modo evidente, senza ipocrisie né finzioni. A questa vista Gesù sentiva com-passione: non giudicava chi aveva di fronte, non lo condannava, ma andava a cercarlo la dov’era, nel suo peccato, per proporgli una relazione, la possibilità di fare un tratto di strada insieme, di ascoltarsi reciprocamente senza pregiudizi (cf. Lc 19,10). Così i peccatori fuggivano dalla comunità giudaica e si recavano da Gesù, il che scandalizzava gli uomini religiosi per mestiere, i quali “mormoravano dicendo: ‘Costui accoglie i peccatori e addirittura mangia con loro!’”.

Gesù è dunque costretto a difendersi, e lo fa non con violenza e neppure con un’apologia di se stesso, ma raccontando a questi farisei e scribi delle parabole, per l’esattezza tre: quella della pecora smarrita (cf. Lc 15,4-7), quella della moneta smarrita (cf. Lc 15,8-19) e quella che ascoltiamo nella liturgia, la famosa parabola dei due figli perduti e del padre prodigo d’amore. Cerchiamo di leggerla, ancora una volta, in obbedienza alle sante Scritture e formati dall’insegnamento che ci viene dalle nostre esperienze, dalle nostre storie.

Gesù narra la vicenda di una famiglia che, come tutte le famiglie, non è ideale, non è esente dalle sofferenze e dall’“irregolarità” dei rapporti. Essa è composta da un padre (manca però la madre: è morta, o forse assente?) e da due figli, nati e cresciuti nello stesso ambiente eppure capaci di due esiti formalmente diversi, agli antipodi: in realtà, però, entrambi sono accomunati dalla non conoscenza del padre e dalla volontà di negarlo. Ma si badi bene: il padre di questa parabola appare fin dall’inizio altro rispetto ai padri terreni, perché alla richiesta del figlio minore di ricevere in anticipo l’eredità (dunque, in qualche modo, il figlio lo vuole già morto!), risponde lasciandolo fare, senza ammonirlo, senza contraddirlo, senza metterlo in guardia. C’è tra noi umani un padre così? No! Siamo dunque subito portati a vedere in questo padre il Padre, cioè Dio stesso, l’unico che ci lascia liberi di fronte al male che vogliamo compiere, che non ci ferma ma tace, lasciandoci allontanare da sé. Perché? Perché Dio rispetta la nostra autonomia e la nostra libertà. Ci ha dato l’educazione attraverso la Legge e i Profeti, ma poi ci lascia liberi di decidere come vogliamo.

È così che il padre della parabola divide tra i due figli l’eredità, o meglio – come dice il testo greco – “la sua vita” (ho bíos), e lascia partire il figlio minore, mostrandogli, anche se costui certamente non lo capisce, rispetto della sua libertà, gratuità, amore fedele. Il figlio minore esige, reclama, rivendica, forza la mano al padre, e quest’ultimo risponde in modo sorprendente: tutto il suo atteggiamento lo mostra come inoperoso, quasi assente, per rispetto della libertà del figlio. Il figlio, dunque, se ne va finalmente fuori da quella casa che sentiva come una prigione, lontano dallo sguardo di quel padre che sentiva come uno spione, via da quello spazio che doveva condividere con il padre e con il fratello maggiore e che non sentiva come proprio.

Se ne va, ma presto dissipa tutto in feste con amici, giochi, prostitute, rimanendo così senza soldi, fino a doversi mettere a lavorare per sopravvivere. Finisce addirittura per fare il mandriano di porci, animali impuri, disprezzati dagli ebrei, e in quella desolazione comincia a capire meglio dove si può andare a finire… Così “cominciò a trovarsi nel bisogno” (érxato hystereîsthai): gli manca qualcosa, e la mancanza di qualcosa è sempre capace di suscitare in noi delle domande. Cosa gli manca? Certo i soldi spesi, certo il cibo per vivere, ma gli manca anche qualcuno accanto, qualcuno che gli dia da mangiare: anche solo le carrube che mangiavano i porci, ma sente il bisogno che qualcun altro accanto a lui gliele porga! È così, noi abbiamo bisogno dell’altro, e quando gli altri scompaiono dal nostro orizzonte siamo desolati e andiamo verso la morte. A partire dall’esperienza di questa condizione uguale a quella degli animali, il nostro ragazzo comincia a rialzarsi. Non è uno che si converte, ma in lui c’è ormai il desiderio di dire “basta” a quell’esilio da casa, a quella condizione di fame e degradazione. Pensa allora a come poter tornare indietro, convincendo il padre a dargli da mangiare: farà il servo in casa e così si assicurerà il vitto; meglio a casa da servo, che qui da maiale… Ritorna, dunque, imparando a memoria la scena da recitare al padre, per placare la sua collera, la sua giusta ira.

Ma ecco che qui inizia un cammino pieno di sorprese, perché finalmente il figlio conosce il padre in modo diverso da come l’aveva conosciuto quando viveva con lui. Egli pensa che il padre lo chiamerà a rendere conto delle sue malefatte, e invece trova il padre che gli corre incontro; pensa di doversi sottomettere al castigo, diventando schiavo, e invece il padre lo veste con l’abito del figlio; pensa che dovrà piangere e umiliarsi, e invece è il padre a imbandire per lui un banchetto, facendo uccidere il vitello ingrassato; pensa che dovrà stare ai piedi del padre come un penitente, e invece il padre lo abbraccia e lo bacia. Si noti che il padre non si preoccupa se il figlio manifesta un vero pentimento, una vera contrizione. Non lo lascia parlare, lo abbraccia stretto, gli impedisce gesti penitenziali ed espiatori, e così gli mostra il suo perdono gratuito. Proprio come aveva profetizzato Osea: Dio continua ad amare il suo popolo mentre questi si prostituisce, e, appena può, lo riabbraccia e lo riprende (cf. Os 1,2; 11,8-9). Sì, questo padre era altro da come il figlio minore lo aveva conosciuto stando a casa e poi fuggendo lontano: ed è come se questa scoperta lo risuscitasse, lo rimettesse in piedi, gli desse la possibilità di una nuova vita in comunione con lui.

La parabola potrebbe concludersi qui, e l’insegnamento di Gesù sarebbe completo: finalmente il figlio ha conosciuto il vero volto del padre, volto di misericordia, amore fedele che non viene mai meno, amore senza fine… E invece c’è un seguito: i peccatori sono invitati dalla prima parte della parabola a conoscere il vero volto di Dio e quindi a sentirsi perdonati a tal punto da convertirsi; ma i giusti, o meglio quelli che si credono giusti e buoni, come il figlio maggiore che è restato fedelmente in casa, che ne è di loro? La parabola contiene un insegnamento anche per loro, cioè per il figlio maggiore. Eccolo entrare in scena mentre, da ragazzo bravo, diligente e volenteroso, ritorna dai campi dove ha lavorato. Egli sente il rumore di musica e danze provenire dalla casa e si chiede il perché di tutto ciò; è un servo a spiegargli come sono andate le cose: “Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. In risposta, egli non sa fare altro che adirarsi, ripromettendosi di non prendere parte a una festa per lui tanto ingiusta.

Se ne sta dunque fuori, ed è il padre a uscire ancora una volta, facendosi incontro anche a lui: lo prega di entrare per partecipare alla gioia del fratello che era come morto, ma ora è un uomo nuovo. Inutile, le parole del padre lo infastidiscono ancora di più: com’è possibile – egli pensa –, c’è una giustizia che deve regnare! Suo fratello (anzi, egli rivolgendosi al padre dice con disprezzo: “Questo tuo figlio…”) se n’è andato, ha sperperato tutto con amici e prostitute, ha goduto e gozzovigliato, mentre egli a casa ha dovuto mandare avanti la campagna e la cascina. E adesso, com’è possibile festeggiare quello che è tornato, quando mai è stato festeggiato lui, rimasto fedelmente a casa? Appare così chiaro che anche questo figlio, pur essendo restato accanto al padre, non lo aveva mai conosciuto, non aveva mai letto il suo cuore, non aveva mai creduto nel padre. Era rimasto in una casa che, come per suo fratello, era una prigione; era rimasto accanto a un uomo, suo padre, che mai aveva conosciuto in verità. È il padre a doverglielo svelare: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, potevi liberamente prenderti un capretto per fare festa con i tuoi amici. Perché non l’hai fatto? Ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Questa è davvero la parabola dell’amore frustrato di quel padre che ha amato fino alla fine (cf. Gv 13,1), totalmente, gratuitamente, e che invece è apparso un padre-padrone in virtù delle proiezioni che entrambi i figli hanno fatto su di lui. Capita sempre così quando il Padre è Dio, sul quale proiettiamo le nostre immagini; capita così a volte anche nei rapporti tra i padri e i figli di questo mondo. L’unica differenza è che l’amore di Dio è preveniente, sempre in atto, mai contraddetto, fedele e misericordioso, il nostro invece… Per il fratello maggiore resta il compito di non dire più al padre: “questo tuo figlio”, bensì: “questo mio fratello”. È un compito che ci attende tutti, ogni giorno. Affermare che l’uomo è figlio di Dio è facile, e tutti gli uomini religiosi lo fanno, perché hanno cara la teologia ortodossa. È invece più faticoso dire che l’uomo è “mio fratello”, ma è esattamente questo il compito che ci attende. Dio, il Padre, resta fuori dalla festa, accanto a ciascuno di noi, e ci prega: “Di’ che l’uomo è tuo fratello, e allora potremo entrare e fare festa insieme”.

Enzo Bianchi 
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Rembrandt
Rambrandt, Autoritratto con Saskia

Rembrandt Harmensz van Rijn, Autoritratto con Saskia (Il figliol prodigo in una taverna), 1635 circa, olio su tela, 161×131 cm, Dresda, Staatliche kunstsammlungen, Gemäldegalerie.

Nel 1633 Rembrandt si fidanza con Saskia Uylenburgh, nipote di un facoltoso e illustre mercante, acquisendo poi con il matrimonio la cittadinanza di Amsterdam ed entrando nella gilda di San Luca. La giovane donna apparirà molto spesso nei dipinti del marito atti a rappresentare il raggiungimento di un nuovo status sociale. Nell’inventario del defunto tutore del figlio Titus stilato nel 1677 era incluso un quadro: “Ritratto di Rembrandt Van Rijn con la moglie” (Corpus delle opere di Rembrandt, vol III, p. 134).

Alcuni studiosi hanno identificato questo ritratto con l’opera conservata a Dresda, anche se i redattori del Corpus delle opere di Rembrandt sono meno sicuri. Si è creata nel tempo attorno a questa tela una tradizione aneddotica che vi leggeva la sfrontata celebrazione dell’amore tra i due giovani sposi, i biografi romantici hanno fatto si che la rappresentazione rispondesse all’immagine del pittore spudorato prima del crollo nella vedovanza e nella bancarotta.

Questo dipinto però non sembra essere del tutto autobiografico. Se Rembrandt è il figlio prodigo allora Saskia è una donna di piacere: un ruolo improbabile per la moglie di un artista ambizioso e interessato ad entrare nel patriziato di Amsterdam. Resta il fatto che il soggetto è chiaro e lo confermano due disegni a penna dello stesso periodo che forniscono delle varianti di questa scena.

Elia Fiore
Fede ad Arte
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