XXV Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)
Marco 9,30-37

Jacob Jordaens, san Pietro (particolare), Alte Pinakothek, Monaco

Jacob Jordaens, san Pietro (particolare)


In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

(Letture: Sapienza 2,12.17-20; Salmo 53; Giacomo 3,16-4,3; Marco 9,30-37).

L’insegnamento di Gesù: chi vuol essere primo sia servo di tutti
Commento di Ermes Ronchi

Il Vangelo ci sorprende con parole inusuali, ci consegna tre nomi di Gesù che vanno controcorrente: ultimo, servitore, bambino, così lontani dall’idea di un Dio Onnipotente e Onnisciente quale l’abbiamo ereditata.

Il contesto. Gesù sta parlando di cose assolute, di vita e di morte, sta raccontando ai suoi migliori amici che tra poco sarà ucciso, è insieme con il gruppo dei più fidati, ed ecco che loro non lo ascoltano neppure, si disinteressano della tragedia che incombe sul loro maestro e amico, tutti presi soltanto dalla loro competizione, piccoli uomini in carriera: chi è il più grande tra noi?

Penso alla ferita che deve essersi aperta il lui, alla delusione di Gesù. C’è di che scoraggiarsi. Tra noi, tra amici, un’indifferenza così sarebbe un’offesa imperdonabile.

Invece il Maestro del cuore, ed è qualcosa che ci conforta nelle nostre fragilità, non rimprovera gli apostoli, non li ripudia, non li allontana, e tanto meno si deprime. Li mette invece sotto il giudizio di quel limpidissimo e stravolgente pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti. Il primato, l’autorità secondo il Vangelo discende solo dal servizio.

Prese un bambino, lo pose in mezzo, lo abbracciò e disse: chi accoglie uno di questi bambini accoglie me. È il modo magistrale di Gesù di gestire le relazioni: non si perde in critiche o giudizi, ma cerca un primo passo possibile, cerca gesti e parole che sappiano educare ancora. E inventa qualcosa di inedito: un abbraccio e un bambino.

Tutto il vangelo in un abbraccio, un gesto che profuma d’amore e che apre un’intera rivelazione: Dio è così. Al centro della fede un abbraccio. Tenero, caloroso. Al punto da far dire ad un grande uomo spirituale: Dio è un bacio (Benedetto Calati).

E papa Francesco, a più riprese: «Gesù è il racconto della tenerezza di Dio», un Dio che mette al centro della scena non se stesso e i suoi diritti, ma la carne dei piccoli, quelli che non ce la possono fare da soli.

Poi Gesù va oltre, si identifica con loro: chi accoglie un bambino accoglie me. Accogliere, verbo che genera il mondo come Dio lo sogna.

Il nostro mondo avrà un futuro buono quando l’accoglienza, tema bruciante oggi su tutti i confini d’Europa, sarà il nome nuovo della civiltà; quando accogliere o respingere i disperati, che sia alle frontiere o alla porta di casa mia, sarà considerato accogliere o respingere Dio stesso.

Quando il servizio sarà il nome nuovo della civiltà (il primo si faccia servo di tutti).

Quando diremo a uno, a uno almeno dei piccoli e dei disperati: ti abbraccio, ti prendo dentro la mia vita. Allora, stringendolo a te, sentirai che stai stringendo fra le tue braccia il tuo Signore.

“Se uno vuole essere il primo…”
Commento di Enzo Bianchi

La confessione di Pietro che proclamava Gesù quale Messia (cf. Mc 8,29) rappresenta nel vangelo secondo Marco una svolta nel tempo della predicazione di Gesù. A partire da quell’evento, Gesù cerca di raggiungere Gerusalemme discendendo dalle pendici dell’Hermon e passando per Cafarnao in Galilea.

Questa è l’unica salita di Gesù verso la città santa testimoniata da Marco, e quindi dagli altri sinottici, una salita durante la quale Gesù intensifica l’insegnamento rivolto ai suoi discepoli, alla sua comunità itinerante, continuando ad annunciare loro la necessitas della sua passione e morte. Come già aveva detto all’inizio del viaggio, a Cesarea di Filippo (cf. Mc 8,31), qui ribadisce: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”; e lo farà ancora poco dopo (cf. Mc 10,33-34). Gesù sta per essere consegnato (paradídomi), verbo forte che indica un essere dato in balìa, in potere di qualcuno. Così avverrà, e Gesù sarà sempre un soggetto passivo di tale azione: consegnato da Giuda ai sacerdoti (cf. Mc 14,10), dai sacerdoti a Pilato (cf. Mc 15,1), consegnato da Pilato perché fosse crocifisso (cf. Mc 15,15).

Il passivo usato negli annunci della passione e la medesima necessitas espressa in tutti e tre i casi indica tuttavia che, sebbene questa consegna avvenga per mano di uomini responsabili delle loro azioni, essa però non accade come un semplice accidente (“a Gesù è andata male…”), bensì secondo ciò che è conforme alla volontà di Dio. Ovvero, che un giusto non si vendichi, non si sottragga a ciò che gli uomini vogliono e possono fare nella loro malvagità: rigettare, odiare, perseguitare, mettere a morte chi è giusto, perché gli ingiusti non lo sopportano (cf. Sap 1,16-2,20). Necessitas umana, dunque, innanzitutto: in un mondo di ingiusti, il giusto non può che patire ed essere condannato. È stato sempre così, in ogni tempo e luogo, e ancora oggi è così… Dio non vuole la morte di Gesù, ma la sua volontà è che il giusto resti tale, fino a essere consegnato alla morte, continuando ad “amare fino alla fine” (cf. Gv 13,1). Il giusto mai e poi mai consegna un altro alla morte ma, piuttosto di compiere il male, si lascia consegnare: ecco la necessitas divina della passione di Gesù.

Come Pietro al primo annuncio (cf. Mc 8,32-33), qui tutti i discepoli si rifiutano di comprendere le parole di Gesù e, chiusi nella loro cecità, neppure lo interrogano. Ma ecco che, giunti nella loro casa di Cafarnao, Gesù e i suoi sostano per riposarsi. In quell’intimità Gesù domanda loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. La risposta è un silenzio pieno di vergogna. I discepoli, infatti, sanno di che cosa hanno parlato, sanno che in quella discussione vi era stato in loro un desiderio e un atteggiamento peccaminoso: ognuno era stato tentato – e forse lo aveva anche espresso a parole – di aspirare e di pensarsi al primo posto nella comunità. Avevano rivaleggiato gli uni con gli altri, avanzando pretese di riconoscimento e di amore. Gesù allora li chiama a sé, chiama soprattutto i Dodici, quelli che dovranno essere i primi responsabili della chiesa, e compie un gesto. Prende un piccolo (paidíon), un povero, uno che non conta nulla, lo mette al centro, e abbracciandolo teneramente, afferma: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Un bambino, un piccolo, un povero, un escluso è posto in mezzo al cerchio di un’assemblea di primi, di uomini destinati ad avere il primo posto nella comunità, per insegnare loro che se uno vuole il primo posto, quello di chi governa, deve farsi ultimo e servo di tutti.

Stiamo attenti alla radicalità espressa da Gesù nel vangelo secondo Marco. Se c’è qualcuno che pensa di poter giungere al primo posto della comunità, allora per lui è semplice: si faccia ultimo, servo di tutti, e si troverà a essere al primo posto della comunità. Non ci sono qui dei primi designati ai quali Gesù chiede di farsi ultimi, servi, ma egli traccia il cammino opposto: chi si fa ultimo e servo di tutti si troverà ad avere il primo posto, a essere il primo dei fratelli. Sì, un giorno nella chiesa si dovrà scegliere che deve stare al primo posto, chi deve governare: si tratterà solo di riconoscere come primo colui che serve tutti, colui che sa anche stare all’ultimo posto. Gesù confermerà e anzi amplierà questo stesso annuncio poco più avanti: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servo, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,42-44).

E invece sappiamo cosa accadrà in ogni comunità cristiana: si sceglierà il più brillante, il più visibile, quello che s’impone da sé, magari il più munito intellettualmente e il più forte, addirittura il prepotente, lo si acclamerà primo e poi gli si faranno gli auguri di essere ultimo e servo di tutti. Povera storia delle comunità cristiane, chiese o monasteri… Non a caso gli stessi vangeli successivi prenderanno atto che le cose stanno così, e allora Luca dovrà esprimere in altro modo le parole di Gesù: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve” (Lc 22,26). Ma se la parola di Gesù fosse realizzata secondo il tenore del vangelo più antico, allora saremmo sempre fedeli al pensiero e alla volontà di Gesù!

Al termine di questo brano evangelico soprattutto chi è pastore nella comunità (ad esempio, per ora, anch’io) si domandi se, tenendo il primo posto, essendo chi presiede, il più grande, sa anche tenere l’ultimo posto e sa essere servo dei fratelli e delle sorelle, senza sogni o tentativi di potere, senza ricerca di successo per sé, senza organizzare il consenso attorno a sé e senza essere prepotente con gli altri. Da questo dipende la verità del suo servizio, che potrà svolgere più o meno bene, ma senza desiderio di potere sugli altri o, peggio ancora, di strumentalizzare gli altri. Nessuno può essere “pastore buono” come Gesù (Gv 10,11.14), e le colpe dei pastori della chiesa possono essere molte: ma ciò che minaccia il servizio è il non essere servi degli altri, il fare da padrone sugli altri.

Discorsi ‘lungo la via’
Commento di Antonio Savone

Quella strada… e quei discorsi fatti per strada…

È ancora la strada a trattenerci quest’oggi alla scuola del Maestro. La strada non come luogo geografico circoscritto ma come luogo simbolo della vita, delle stagioni della vita, di ciò che anima e attraversa le giornate dell’uomo.

Lungo quella strada si consuma un dialogo tra sordi, che oserei definire inevitabile lungo la via di tutta la storia umana e si consuma altresì un mistero di solitudine. Dopo aver istruito i discepoli, questi tacciono e Gesù riprende il cammino verso Cafarnao più solo che mai.

Era già accaduto precedentemente (cfr. domenica scorsa): la professione di fede di Pietro formulata proprio lungo la strada, nascondeva attese improprie circa l’identità del Messia e dei suoi collaboratori. Proprio quella confessione/sconfessione aveva marcato una distanza tra Maestro e discepoli. Gesù aveva dovuto usare parole forti per rimandare al proprio posto il primo papa.

Ora di nuovo: egli è lì ad affermare in che modo porterà a compimento le antiche promesse, mediante la consegna di sé, “facendosi piccolo nell’obbedienza al Padre”, gli altri lì a discutere chi tra loro sia il più grande. Non avremmo mai immaginato che quelli che sarebbero poi diventati punto di riferimento per la stessa fede degli altri credenti, si siano abbassati a tanta piccineria. Lo scandalo dell’episodio è proprio la sua collocazione. Ma come? Il Maestro è lì a dire di sé e di ciò che lo attende e loro a volersi spartire la torta di un potere frainteso?

Davvero meschini i discepoli: avevano frainteso tutto. O meglio: avevano capito solo quello che avevano voluto capire. La loro preoccupazione era che cosa sarebbe accaduto di loro una volta a Gerusalemme. E ora non hanno neanche il coraggio di dire l’argomento del loro discorrere tanto si vergognano, proprio come un bambino colto di sorpresa dai suoi mentre ne sta combinando una. Per fortuna l’evangelista non ha censurato pagine come questa che tradiscono tutta l’umana fragilità di chi dovrà prendersi carico dell’annunzio del vangelo fino agli estremi confini della terra e nondimeno fa i conti con il proprio spirito arrivista.

La logica della forza usata dal potere politico e religioso del tempo metterà a morte Gesù, ma il non voler accettare che la sequela passi attraversa l’esperienza della consegna di sé, darà adito a logiche di competizione e di carrierismo anche all’interno della stessa comunità ecclesiale. E penso così al sognare ancora i fasti di una comunità cristiana che si riconosce sul registro del successo e del consenso ma che finisce per irridere la scelta del Maestro.

A nulla servirà il paziente ritessere i fili del discorso da parte di Gesù: essi però non capivano queste parole. Stando a quello che dice Mc si tratta di qualcosa che al contempo ignorano e rifiutano.

Di lì a poco, infatti, come se non bastasse, egli annuncerà per la terza volta la sua fine ignominiosa e, di nuovo, due di essi, Giacomo e Giovanni, a chiedere di sedere uno a destra l’altro a sinistra nel suo regno. E tutti a rimproverarli, non già “perché avessero chiesto una cosa sbagliata, ma perché anche loro volevano le stesse posizioni”.

Eppure, il Maestro non recede. Di nuovo un gesto di tenerezza ben espresso in quel sedutosi, chiamò i dodici… Nonostante abbiano manie di grandezza e di privilegi non li ha ripudiati ma si è messo al loro livello per introdurli in una diversa comprensione delle cose, provando così a fugare la paura dal loro cuore. È il loro cuore, infatti, che indurito respinge il fatto che possa avere un senso il soffrire e il dare.

Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti. Ecco la differenza cristiana: il nome nuovo delle relazioni è minorità. Francesco d’Assisi ne è un esempio quando crea una vita diversa ispirata proprio a questo stile evangelico finendo per mutare linguaggi e forme dell’esercizio dell’autorità. Questo è il codice per rileggere ogni autentica autorità, dentro e fuori la Chiesa. Non altro criterio: accettare di morire al proprio orgoglio e alla propria voglia di prevalere, di primeggiare. Questo vuol dire ricollocarci nel vangelo. Altrimenti ne siamo fuori. Di gran lunga. La croce abolisce tutte le espressioni del potere dell’uomo sull’uomo.

Preso un bambino, lo pose in mezzo a loro…

Penso sia il gesto che più il Signore continui a ripetere da duemila anni a questa parte, quello di invitarci a non distogliere lo sguardo dal bambino, dal piccolo senza diritti, dall’ultimo nella scala del potere. Il bambino era colui del quale il padre aveva diritto di vita e di morte fino ai dodici anni. È il bambino quello con cui ogni generazione di discepoli è chiamata ad identificarsi. Con il senza potere. Dio ha scelto quel posto: a disposizione (facendosi servo) e facendo spazio agli altri (accogliere i piccoli). Capovolto il nostro Dio, capovolta la comunità cristiana. Beato chi sarà in grado di riconoscerlo e di accoglierlo senza patirne scandalo.

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Percorsi rovesciati
Clarisse Sant’Agata 

Lungo la via di “uscita” verso Gerusalemme, Gesù continua ad ammaestrare i discepoli circa il mistero pasquale che lo/li attende. Gesù è un sapiente formatore che insegna progressivamente ai suoi la logica rovesciata dell’agire di Dio. E’ interessante che solo l’evangelista Marco definisca gli annunci della passione e resurrezione un “insegnamento”. Evidentemente non si tratta di una semplice informazione da sapere, ma di una logica da imparare, mai acquisita in modo definitivo. E’ una “scuola” dove l’insegnamento del Maestro chiama immediatamente in causa la vita del discepolo. L’annuncio della vita pienamente donata di Gesù vuole diventare “regola” per la condotta del discepolo, la forma della vita del Maestro vuole dare forma alla vita del discepolo.

“Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà” (Mc 9,31). In questo secondo insegnamento circa la sua pasqua, Gesù è molto sintetico: non si sofferma a sottolineare le sofferenze che subirà, ma sintetizza tutto ciò che gli accadrà nell’essere “consegnato nelle mani degli uomini”. Dietro questo verbo (“consegnare”) si nasconde la logica di fondo di tutta la vita di Gesù: il Figlio è un uomo “consegnato”, che ha fatto della consegna di sé la forma di tutta la sua esistenza.

Dentro questa consegna sono all’opera diversi protagonisti: è Dio che consegna il Figlio in un misterioso disegno di salvezza (e questo viene espresso attraverso il passivo che sottintende Dio come soggetto: “viene consegnato”); è Giuda che consegnerà Gesù nelle mani degli uomini (ricordiamo che “consegnare” e “tradire” sono espressi con lo stesso verbo greco): c’è Gesù stesso che liberamente si auto-consegna “nelle mani” del Padre e degli uomini perché si compia il disegno di Dio nella storia.

La fiducia nel Padre, nelle cui mani tutto è custodito (cfr. Gv 10,29) permette a Gesù di vivere ogni altra consegna come luogo dove fare esperienza dell’amore di Lui. Gesù è il Figlio/servo consegnato che rivela il volto di un Padre buono dalle cui mani tutto riceve: la vita e la morte (cfr. Gv 13,3: “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava…”). Perché tutto accoglie come occasione per vivere nel Suo amore, anche la violenza degli uomini che il Padre permette che il Figlio subisca ingiustamente. E Gesù può vivere questo amore per la sua fede indistruttibile in Colui “che lo ha mandato”. Una fede che somiglia a quella dei bambini che Gesù prende come modello alla fine del vangelo di oggi: affidati ad un altro perché nell’orizzonte della società del tempo senza alcuna rilevanza, senza avere in se stessi la possibilità di sussistere.

Se la “consegna” è lo stile di fondo della vita di Gesù, non ci sfuggano gli altri due verbi che Gesù usa per descrivere ciò che lo attende: uccidere e risorgere (“lo uccideranno… risorgerà”). C’è una insistenza sulla morte (il verbo “uccidere” è ripetuto due volte) ma l’ultimo approdo è la vita.

L’itinerario di consegna del Figlio dell’uomo va dalla morte alla vita.

Il morire è solo il primo stadio di un percorso che ha come esito certo la resurrezione, la vita nuova.

Molto spesso dimentichiamo che l’orizzonte ultimo di tutto ciò che viviamo è la vita da risorti e che la morte che subiamo (ogni esperienza di morte che facciamo!) è solo una tappa intermedia, non l’ultima parola su di noi. Infatti, se questo è l’orizzonte di Gesù, lo sarà anche per tutti noi che cerchiamo di seguirlo sulla sua via!

Ed ecco che, di fronte a queste parole di Gesù, l’incomprensione dei discepoli emerge con tutta la sua forza: “lungo la via” infatti “discutevano fra loro chi fosse il più grande”. Mentre Gesù parla di consegna nelle mani di un Altro/altri, loro parlano di ordini di grandezza. Non potrebbero essere più distanti da Gesù e da quello che Lui stesso sta vivendo nel suo viaggio verso la sua pasqua!

Ma Gesù non si scoraggia. Questa volta non li rimprovera, come aveva fatto con Pietro (cfr. Mc 8,33), ma, partendo dalla loro incomprensione, approfondisce il suo insegnamento: “sedutosi (la posizione del Maestro che insegna!) chiamò i Dodici e disse…”. Proprio perché i Dodici sono lontani dalle sue parole, Lui li chiama a sé, li avvicina e offre loro una parola e un gesto per “invertire la rotta” e mettersi sulla lunghezza d’onda delle parole di Gesù. In questo modo il Signore insegna loro cosa significhi “essere consegnato nelle mani degli uomini”.

L’unica grandezza che Gesù riconosce è quella di chi si fa “ultimo di tutti e servo di tutti”. E’ la grandezza non di chi vuole primeggiare, ma di chi pone l’altro prima di sé.

Chi può dire di essere “ultimo di tutti e servo di tutti”?

Se siamo onesti con noi stessi e con la nostra ricerca di “perfezione” religiosa, dobbiamo ammettere che nessuno di noi può dire questo di sé!

Solo Gesù è l’“ultimo di tutti e il servi di tutti”!

Lui è il “Primo e l’Ultimo” (Ap 1,17; 2,8; 22,13) a immagine del Padre che, proprio perché è Dio, il Primo, può essere l’Ultimo, cioè Colui che pone l’altro, l’uomo, prima di sé (cfr. Is 44,6; 48,12). “Primo” e “ultimo” non indicano semplicemente una posizione nello “spazio”, uno stare “davanti” o “dietro” all’altro. Primo e ultimo sono anche le posizioni che abbracciano tutto il tempo: Dio è Colui nelle cui mani è tutta la storia, dal suo principio al suo approdo finale.

Richiamando i suoi a farsi “ultimi di tutti” Gesù li riporta ancora una volta ad affidarsi alle mani di Dio, a “consegnarsi” a Lui nella fiduciosa certezza che ci attende una vita donata da Lui: “affida al Signore la tua via ed egli compirà la sua opera”.

E ancora è solo Gesù il “servo di tutti” (ogni altro discepolo lo può diventare solo a Sua immagine). Lui è venuto per servire (cfr. Mc 10,45), si è fatto servo proprio perché è il Signore (cfr. Gv 13,14-15).

“Ultimo” e “Servo” sono i due nomi di Dio che Gesù ha rivelato in tutta la loro bellezza. E che risplendono nel momento in cui il Figlio/servo muore come il Servi di JHWH, l’ultimo di tutti, il “reietto degli uomini” (Is 53,3).

Lui ha aperto questa via verso la vita.

Chi la percorrerà?