Ascensione del Signore (B)
Mc 16,15-20

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Signore

La liturgia di queste settimane ci ha parlato insistentemente di un legame duraturo e stabile con il Signore Gesù, nostra Vite/vita, rimanendo nel quale la nostra esistenza può dare il frutto dell’amore, il Suo frutto.

Ora l’ascensione di Gesù al cielo sembrerebbe “recidere” questo legame fra Gesù e i suoi.

In realtà, l’ascensione conferma e stabilisce un legame permanente fra la vita e l’opera di Gesù nel mondo e la vita e l’opera dei suoi discepoli nel mondo. Il vangelo di oggi sottolinea questa profonda continuità di parola e di opere: “essi partirono e predicarono dovunque; il Signore agiva con loro e consolidava la parola attraverso i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20).

Così si conclude il vangelo secondo Marco: il Signore Gesù asceso al cielo e seduto alla destra di Dio non si separa dai suoi, ma prolunga la sua azione nel mondo attraverso il Vangelo proclamato dai discepoli che egli conferma come garante affidabile (“consolidava”) attraverso “i segni che lo accompagnavano”.

“Proclamazione del Vangelo” e “segni che accompagnavano la Parola” avevano caratterizzato l’inizio dell’attività di Gesù secondo Marco: “Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio” (cfr. Mc 1,14) e subito dopo Marco ci presenta Gesù che compie segni di guarigione su indemoniati e malati (cfr. Mc 1,21-2,12), tanto che l’evangelista annota “e Gesù andò per tutta la Galilea predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni” (Mc 1,39).

Ora “proclamazione del Vangelo” e “segni che accompagnano la Parola” caratterizzano in modo permanente la missione dei suoi inviati a prolungare la missione Gesù nel mondo (notiamo che anche prima della sua pasqua, Gesù aveva già mandato i suoi discepoli dotandoli di parola e segni potenti:cfr. Mc 6,7-13).

Marco non si sofferma a narrare l’evento dell’ascensione al cielo di Gesù (come fa Luca sia nella finale del suo vangelo, sia all’inizio degli Atti degli Apostoli), non c’è nessuna allusione a ciò che vedono i suoi di questo evento. Marco lo narra come un “fatto teologico senza offrirne una raffigurazione” (M. Compiani, “Fuga, silenzio e paura: la conclusione del Vangelo di Mc”, p. 189). L’evangelista ci offre una descrizione breve e sobria dell’evento utilizzando due verbi che ne sottolineano due aspetti.

Prima di tutto Marco usa un verbo passivo: fu elevato al cielo”. In questo modo l’elevazione di Gesù evidenzia l’agire di Dio su di lui (si tratta di un passivo che presuppone Dio per soggetto!) e manifesta la vittoria definitiva del Risorto. Questa elevazione al cielo somiglia a quella di Elia in 1Mac 2,58 e 2Re 2,11, ma, a differenza di Elia che è lontano e assente dalla terra fino al momento in cui riapparirà, il Signore Gesù, pur essendo presso Dio, è all’opera nel mondo, in un legame strettissimo con i suoi discepoli. Si tratta quindi di una “assenza” che diventa “presenza” permanente in un altro orizzonte delle cose. E’ quello che notiamo anche nel vangelo secondo Matteo dove Gesù “lascia” i suoi con queste parole: “io sono con voi fino alla fine del mondo” (Mt 28,10).

Poi Marco descrive l’ascensione di Gesù con un verbo in forma attiva: sedette alla destra di Dio”. Questo suggerisce la piena accoglienza di Gesù dell’azione di Dio di elevarlo al cielo e la partecipazione di Gesù al potere creatore con cui Dio governa la storia. E’ da questa posizione che ora Gesù opera e assicura il successo finale di coloro che credono in lui. Si tratta di una intronizzazione cosmica così come è descritta nel Sal 110,1 (secondo la versione dei LXX). Marco rilegge questo salmo regale applicandolo a Gesù, il figlio di Davide, ormai costituito “Signore” attraverso la resurrezione. Gesù stesso durante il processo aveva affermato la sua relazione con il Padre attraverso questo Salmo 110 indicando l’intronizzazione come il momento della rivelazione definitiva della sua identità (“Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?”. Gesù rispose: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo”. cfr. Mc 14,62). S. Paolo stesso indicherà nell’esaltazione di Gesù alla destra di Dio la permanente rivelazione della regalità del Signore Gesù nella storia (“Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!” cfr. Rm 8,34).

Ora, da questa posizione, Gesù come Signore dà il via alla missione degli Undici: allora essi partirono…”. Cioè, gli Undici partono proprio perché Gesù fu elevato al cielo e siede alla destra di Dio. L’intronizzazione del Resuscitato nella sua funzione di Signore trova immediata applicazione nella missione universale degli Undici.

L’evangelista Marco sottolinea la dimensione “cosmica” della missione degli apostoli. Infatti essi non sono solo inviati“a tutti i popoli”(Mt 28,19 e cfr. Lc 24,47 e At 1,8), ma a “tutto il mondo” e a “ogni creatura” (letteralmente “tutta la creazione”). Ormai devono udire il Vangelo tutto il creato e ogni creatura, anche gli animali e anche gli angeli e i demoni, cioè tutti gli esseri creati. L’annuncio della buona notizia della vittoria sulle potenze del male (morte compresa!) deve essere portata a tutta la creazione.

Infatti i segni che “accompagnano la Parola” e “quelli che credono” sono segni eloquenti della vittoria della Vita dentro l’esperienza del male e della morte.

Notiamo che questi “segni” non accompagnano quelli che annunciano il Vangelo, ma “quelli che credono”. La fede precede i segni, cioè apre a ciò che non si vede, fa vedere le cose invisibili (cfr. Eb 11), dona di vedere realizzato nella vita il contenuto della Parola accolta. Non sono tanto i segni che fanno accedere alla fede, ma il contrario: è la fede che dona di vedere la Parola che si compie e opera cose incredibili!

I “segni” di cui parla Gesù sono cinque: “nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”. Il primo (scacciare i demoni) e l’ultimo segno (guarire i malati) corrispondono alle due opere principali di Gesù durante il suo ministero in Galilea, come abbiamo già notato (cfr. Mc 1,21-2,12). Ora l’attività di Gesù si prolunga nell’opera affidata ai suoi discepoli che portano la Sua signoria sulle forze che minacciano la vita dell’uomo (il male, la malattia). Gli altri tre segni manifestano sempre la vittoria del vangelo della vita in situazioni “pericolose” per l’uomo: là dove l’uomo vive la mancanza di comunicazione con il fratello, il dono di “parlare lingue nuove” apre rinnovate possibilità di comprensione e di comunione; là dove l’uomo è insidiato dal pericolo di “serpenti”, cioè del male che insinua inimicizia fra l’uomo e Dio e fra l’uomo e suo fratello (cfr. Gen 3), è donata la possibilità di “prenderli in mano”, cioè di non averne più paura perché resi inoffensivi; anche là dove il “veleno” della morte minaccia la vita dell’uomo, questa non potrà recare danno all’uomo.

E’ la vittoria della vita su ogni potenza che minaccia di morte l’umanità.

Elevato al cielo, il Risorto continua a combattere e vincere la nostra battaglia contro le potenze del male, in ogni sua forma, finché la sua Vita non risplenda in tutta la creazione, liberata dal male e della morte: “Sappiamo che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8,22-25).

Clarisse Sant’ Agata <sorellepovere@clarissesantagata.it>

L’annuncio del Vangelo a tutta la creazione
Commento di Enzo Bianchi.

Il brano evangelico che la chiesa ci propone per la solennità dell’Ascensione del Signore è tratto dalla conclusione aggiunta più tardi al vangelo secondo Marco da parte di “scribi cristiani”, che lo hanno completato con una chiusura meno brusca di quella del racconto originale (cf. Mc 16,1-8). Sono versetti che non si trovano nei manoscritti più antichi e sono sconosciuti a molti padri della chiesa. Tuttavia la chiesa li ha accolti come contenenti la parola di Dio, tanto quanto il resto del vangelo, e infatti sono conformi alle Scritture (secundum Scripturas: 1Cor 15,3.4); sono addirittura una sintesi dei finali degli altri vangeli (soprattutto dei sinottici), che raccontano gli eventi riguardanti Gesù risorto, asceso al cielo e glorificato dal Padre.

Secondo questa conclusione, Gesù apparve al gruppo dei Dodici privi di Giuda, agli Undici dunque, mentre giacevano a tavola. Costoro che, chiamati da Gesù alla sua sequela, erano stati coinvolti nella sua vita e avevano appreso da lui un insegnamento autorevole per almeno tre anni, nell’alba pasquale avevano ascoltato da Maria di Magdala l’annuncio della resurrezione di Gesù (cf. Mc 16,9-10), ma a lei “non credettero” (epístesan: Mc 16,11); anche i due discepoli di Emmaus avevano raccontato come il Risorto si era manifestato sulla strada (cf. Mc 16,12-13), “ma non credettero (epísteusan) neppure a loro” (v. 13). Per questo, quando Gesù “alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, li rimproverò per la loro incredulità (apistía) e durezza di cuore (sklerokardía), perché non avevano creduto (epísteusan) a quelli che lo avevano visto risorto” (Mc 16,14).

Questa è la verità che va detta, ed è stata detta nella chiesa (prova ne sia questo testo) quando non erano ancora dominanti il trionfalismo e l’adulazione delle autorità. Gli Undici sono stati preda del dubbio profondo, sono stati increduli dopo la morte di Gesù come lo erano stati durante la sua sequela, quando egli era stato costretto a rivolgersi alla sua comunità dicendo: “Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non ascoltate?” (Mc 8,17-18). Situazione disperante quella dei futuri testimoni, assaliti dall’incredulità! Come potranno annunciare la buona notizia, se neppure loro credono? In questa chiusura – si faccia attenzione – dopo i rimproveri Gesù non mostra segni per portare i suoi discepoli a credere, come la trafittura delle mani e dei piedi (cf. Lc 24,39-40) o quella del costato (cf. Gv 20,20.27)…

Ma nonostante il persistere di questa poca fede, Gesù invia proprio loro in una missione senza confini, veramente universale; una missione cosmica, si potrebbe anche dire: “Andati in tutto il mondo, annunciate la buona notizia a tutta la creazione”. Dovunque vanno, in tutte le terre e in tutte le culture, i discepoli di Gesù devono annunciare la buona notizia che è il Vangelo di Gesù. Non ci sono più le barriere del popolo eletto di Israele, non ci sono più i confini della terra santa: davanti a quei poveri discepoli titubanti c’è tutta la creazione! Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede nel Dio unico e vero: gli inviati devono lasciarsi alle loro spalle terra, famiglia, legami e cultura, per guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.

Quella che viene richiesta è un’opera di spogliazione ben più faticosa di quella dai semplici mezzi economici: si tratta, infatti, di abbandonare le certezze, gli appoggi intellettuali, gli assetti religiosi praticati fino a quel momento, e di immergersi in altre culture. Certo, per fare questo ci vuole fede nel Vangelo, nella sua “potenza divina” (dýnamis theoû: Rm 1,16), mentre occorre smettere di porre fede nella propria elaborazione o nei propri progetti culturali. Più spogli si va, più il Vangelo è annunciato con franchezza e, come seme non rivestito caduto a terra, germoglia subito e più facilmente. Quanti errori abbiamo commesso nell’evangelizzazione, confidando nei nostri mezzi, nelle nostre “ideologie”, e, in parallelo, disprezzando le culture degli altri, che sovente abbiamo mortificato e distrutto per imporre la nostra! E la sterilità del seme del Vangelo, soprattutto in Asia, dove esistevano culture che potevano concorrere con la nostra occidentale, è un segno evidente dell’errore fatto. Il Vangelo è caduto a terra come un seme ma, essendo un seme troppo rivestito, per causa nostra, non ha potuto marcire né, di conseguenza, germogliare.

Ecco il compito dei cristiani: senza febbre “proselitista”, senza cercare di guadagnare a ogni costo dei credenti, percorrendo i mari e le terre come i farisei (cf. Mt 23,15), dovunque si trovino i cristiani annuncino il Vangelo innanzitutto con la vita; poi, se Dio lo concede, con le parole. Sono parole di Francesco di Assisi, riprese da papa Francesco… Gesù non chiede di convincere né di imporre, ma di vivere il Vangelo con gioia, perché questa è la testimonianza. Oggi ci sono troppi leader cristiani che passano di palco in palco “per dare testimonianza”, finendo per raccontare la storia del loro movimento o della loro comunità. C’è solo da arrossire nel chiamare questo comportamento “testimonianza”; c’è da vergognarsi per una tale contraffazione del Vangelo! Meglio quei cristiani dubbiosi, magari come gli Undici, che tentano semplicemente e umilmente ogni giorno di essere cristiani dove si trovano, vivendo il Vangelo e amando Gesù Cristo al di sopra di tutto e di tutti. È di questi cristiani e cristiane che abbiamo bisogno, di discepoli e discepole, non di militanti!

Gesù, salito al cielo, non ci ha abbandonati, ma vivendo nella gloria di Dio ha lasciato noi poveri uomini e donne a dare al mondo segni che egli è risorto e vivente, che lavora insieme a noi e conferma la nostra povera parola con la Parola potente del Vangelo e con i segni del suo operare.

Ascensione, festa cenerentola?
Don Angelo Casati

Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”.

Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai?

Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai?

“La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”.

Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile. L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”.

Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione. E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”.

Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore?

Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore. “L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”.

L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”. Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo.

Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro.

Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori.

E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo.

Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende.

Scrive P. Tillich: “Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale. Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione. Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”.

E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.