Meditazioni sul Vangelo di Matteo
Silvano Fausti


Mt 18

Testo word Fausti – Matteo 4 (Discorso ecclesiastico)
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DISCORSO ECCLESIASTICO
Matteo 18

Il capitolo 15, evidenzia il confronto tra il pane e le mediazioni, tra il pane e le nostre tradizioni farisaiche: “Bisogna fare questo, questo e questo ancora….!”. È lo scontro tra le mediazioni della legge e la libertà cristiana dalla legge stessa. L’unica a cogliere la moltiplicazione dei pani, è una fuorilegge, la Cananèa e la sua parola – non Gesù – guarisce la figlia.

Ad una prima moltiplicazione dei pani, se ne accompagna una seconda., che è simbolo dell’Eucarestia, cioè una moltiplicazione di ripetizione. Il fatto dei pani, sostituisce ogni segno, è il segno di Giona, è il Figlio dell’uomo che scende nel ventre della terra, è il dono di Dio stesso che diventa seme dell’uomo. Per cui, dopo la venuta di Cristo non ci sarà più alcun segno; oltre la croce non esiste altro segno: è Dio che mi dona tutto. Chi cerca segni, disprezza Dio, non ha assolutamente capito nulla, non ha fede. Cerchiamo segni, poiché abbiamo il lievito dei farisei e sadducei e non il lievito di Cristo, il lievito del pane che genera la vita. Siamo in continua ricerca di garanzie pratiche e teoriche. Pensiamo ai sadducei, erano persone ricche; pensiamo ai farisei: erano persone colte, brave, che ragionavano e pianificavano sempre tutto. Abbiamo abbondanza di questi lieviti e ci lamentiamo in quanto manca il pane. Il pane c’è! È uno solo: Cristo. Questo è l’unico pane presente con noi sulla barca, e noi lo ignoriamo poiché abbiamo troppo lievito, per cui cadiamo in discussione. È meravigliosa, sulla barca, la discussione pastorale tra i discepoli, in merito alla mancanza di pane; ad essi Gesù risponde: Non capite ancora?

Successivamente Pietro professa la sua fede, cioè riconosce il pane, ed è tale riconoscimento che dà luogo alla inizializzazione della comunità ecclesiale. A colui che riconoscerà Cristo, poi, non si parlerà più in parabole, ma attraverso la Parola del Verbum Crucis: attraverso il mistero di morte e risurrezione. Questa parola invita alla sequela, la quale ha come termine la trasfigurazione1 e la risurrezione.

Il capitolo 18, è il capitolo della raccolta della semina, è il capitolo della comunità che vive la Parola. Matteo, infatti, applica ora la parola del Figlio alla comunità, ossia fa vedere come essa deve essere vissuta concretamente e storicamente.

È molto bello vedere come nella comunità ci siano esperienze di vita concreta: si litiga su chi è il più grande, si danno scandali, si disprezza, ci sono smarriti, peccatori, c’è chi manca di misericordia, chi è spietato, ecc. La comunità di Dio non è una comunità ideale, ma è una comunità di piccoli peccatori perduti, perdonati e, nello stesso tempo, chiamati a perdonare. È la comunità in cui riceviamo misericordia dal Padre, per mezzo del Figlio, misericordia accordata a noi piccoli, poveri, peccatori. È questa misericordia che siamo chiamati a trasmettere agli altri, al fratello, perché possa diventare anch’egli figlio.

Due grandi monaci antichi, Antonio e Paconio, in un loro breve incontro, parlarono in merito alla comunità. Antonio sosteneva che nella comunità non ci si poteva santificare, poiché era difficilissimo accordare misericordia ai fratelli; Paconio, invece, diceva che, stando da soli, non ci si poteva santificare, poiché mancava l’occasione di usare misericordia. Questo breve aneddoto, fa comprendere come ogni uomo, pur avendo carismi diversi, ha un unico punto centrale: la misericordia. Il perdono è la realizzazione, nella storia, del Regno di Dio ed è meraviglioso vedere come esso si differenzi dai criteri umani di gloria, potenza e grandezza. Il Regno di Dio (sulla linea delle parabole) è piccolo, contrastato, immondo, inefficiente, zoppicante ma, proprio per questo, bisognoso di perdono e di accordo del perdono stesso. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo. (Ef 4,32) È un forte richiamo a non giustiziarci a vicenda, piuttosto a giustificarci e a graziarci.

In merito al capitolo 18, nei versetti 1-5, c’è il fondamento nuovo del nostro rapporto con gli altri; nei versetti 6-11, c’è il problema degli scandali in comunità, scandali che nascono dalla trasgressione di questo fondamento; nei versetti 12-14, c’è il problema pastorale per eccellenza. Qual è la prima pastorale da compiere? È l’attenzione allo smarrito perché non si perda. Non si tratta di coltivare il bravo, perché diventi più bravo. Il punto di vista pastorale deve essere sempre l’ultimo, lo smarrito, il non credente. La Chiesa non è autocentrata, poiché se così fosse sarebbe una setta e non Chiesa cattolica. La ricerca pastorale deve essere rivolta a chi è esterno alla Chiesa e non a chi è al suo interno. Uno dei modi per recuperare lo smarrito, affinché non si perda, è la correzione fraterna, che è la forma più alta di amore, poiché presuppone l’accettazione incondizionata. La correzione fraterna è l’arte della vita comunitaria.

In quell’ora si fecero davanti a Gesù i discepoli dicendo: “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”. E chiamato innanzi un bambino lo pose in mezzo a loro e disse: “Amen dico a voi, se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Chi dunque, si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli e chi accoglierà uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me. (Mt 18,1-5)

A differenza di Marco, che evidenzia il litigio tra i discepoli, Matteo omette la discussione tra i dodici e inizia subito con la domanda che questi rivolgono a Gesù: Chi dunque è più grande nel regno dei cieli? I nostri rapporti, su cosa sono impostati? A cosa mi serve l’altro? Per misurarmi, per vedere chi è il più grande, per esaminare il mio grado di realizzazione. L’altro, infatti, funge da piedistallo alla mia realizzazione e se non mi serve lo butto via. La nostra società, da Adamo in poi, è fondata su questo criterio. Adamo, in fondo, cosa voleva? Voleva essere più grande, voleva addirittura, diventare come Dio. Questa è la prerogativa di ogni uomo. L’uomo cerca di diventare più grande, fondamentalmente, in due modi: prevaricando sugli altri, se si hanno le doti e la volontà per poterlo fare, oppure mettendosi in disparte colpevolizzando gli altri in modo da farsi notare. Questo accade perché l’uomo è relazione, ha bisogno di essere riconosciuto e tutto ciò che fa, lo fa in funzione di questo riconoscimento. Per gli ebrei, la gloria, il peso di un uomo, è in stretta funzione con lo sguardo altrui. Fin quando non scopro la mia gloria, che è data da come Dio mi vede, dipenderò sempre dallo sguardo degli altri, cercherò sempre la vanagloria. Il problema di ogni uomo è scoprire la propria identità, e qual è questa identità? L’uomo, per sua natura, essendo ad immagine di Dio, è fatto per il magis, per il meglio, per il più. Qual è, allora, il criterio per essere di più? Essere di più, non vuol dire essere più bravi, avere più potere, ecc., ma vuol dire essere come il bambino di cui parla il Vangelo. Gesù, infatti, prende un bambino e lo pone al centro: al centro della Chiesa c’è un bambino con il quale Gesù si identifica. Per gli Ebrei, un bambino era considerato come un’appendice della donna, la quale è possesso dell’uomo, per cui era considerato niente: non valeva niente. Il bambino esiste in quanto amato, è ciò che riceve, il suo stesso essere è dell’altro. In base a quanto detto, la vera grandezza dell’uomo è capire di essere figlio, di essere dono. Chi sono io? Sono figlio di Dio. Allora, il mio essere, è essere Dio. Questa è la mia identità: tutto quel che sono l’ho ricevuto, per cui, o lo accetto come dono oppure sarò sempre in conflitto con me stesso, con il Padre e con gli altri. Chi non accetta se stesso, non accetta nessuno, anzi farà di tutto per rendersi accettabile. Il fine di ogni ministero è far scoprire ad ogni persona la sua dignità, che è enorme, infinita e diversa per ciascuno. Il vero problema, dunque, non è più la competitività (che è la conseguenza del fatto che ci sentiamo inferiori, per cui cerchiamo di dominare) ma è il perpetuo conflitto con noi stessi, è il non accettare i propri limiti, poiché essi sono una negazione, sono un richiamo alla nostra morte, alle nostre frustrazioni. Il limite, invece, è indispensabile poiché mi definisce.

L’uomo maturo è colui che si riconosce bambino, che non si riconosce come fatto da solo, che scopre che il suo essere è dono ricevuto. Questa è la condizione filiale che ci rende in grado di accettarci, di vivere con gioia ed instaurare con l’altro un rapporto simile a quello che ho con me stesso, cioè di gioia, accettazione e non conflittualità. Questo è il principio e fondamento del vivere comune. In fin dei conti, possiamo vivere insieme o scannandoci a vicenda, mettendo i piedi sopra l’altro, in continua competizione, oppure con serenità e gioia perché sereni e gioiosi con noi stessi, ossia essendo uomini eucaristici. È proprio il non aver compreso ciò, l’errore di fondo di Adamo, per cui fugge da Dio, è in continuo litigio con Eva, con la vita, con la morte, con la terra, ed è per lo stesso errore che i figli si sono ammazzati. Si tratta di non capire la propria identità. Il paradiso, sarà proprio comprendere tutto questo.

Il fondamento dello stare con gli altri, non è la nostra bravura ma è la nostra piccolezza, sono i nostri limiti. Il mio limite non deve essere luogo di prevaricazione da nascondere con foglie di fico, ma è luogo in cui l’altro mi accoglie, è luogo di servizio reciproco. È il mio limite che mi rende divino. Infatti, l’uomo è stato creato ad immagine di Dio in quanto maschio e femmina, ossia in quanto limitato; è la relazione tra i due che è divina, non è l’essere maschio o femmina: o sei l’uno o sei l’altro, ma entrambi devono accettare di essere insufficienti per la vita. Questo fonda il vivere insieme.

Oggi, comprendiamo l’esigenza di un nuovo modo di intendersi, di accettarsi, e quindi, di stabilire nuovi rapporti umani, basati sulla figliolanza e fratellanza: questo è il senso del Giubileo. Se non si arriverà a comprendere ciò, il mondo non potrà sussistere ancora a lungo per cui ci sarà molto presto la Parusia.

Chi è il più grande? Il Figlio. Cristo non è niente di meno che Figlio. È bellissimo vedere come Gesù, si è fatto nostro fratello, assumendo anche i nostri limiti, per farci comprendere che il limite non limita, ma che, invece, ciò che davvero limita è il non accettare i propri limiti. È necessario guarire dai deliri di onnipotenza che abbiamo (questo sia a livello personale, che comunitario). Il cemento del vivere insieme, è la piccolezza, è il limite, è il bisogno, l’insufficienza, non la bravura.

Se nel Vangelo, il bambino viene posto nel mezzo, è perché al centro della Chiesa deve esserci proprio la piccolezza, la fragilità, il perdente, lo smarrito, il peccatore, il lontano. Ogni smarrimento, debolezza, limite, diventa luogo di comunione, per questo la Chiesa è cattolica e bella. In questo senso, noi cristiani, possiamo vantarci poiché accettiamo tutti (basta guardare come siamo fatti noi!); nelle altre religioni o ideologie, se uno non risponde a determinati parametri o non ha lo stesso pensiero, è fuori, non è accettato come membro. La Chiesa, invece, è grande madre, accetta tutti, si apre a tutti.

Dunque, è necessario convertirsi e diventare – non essere – come bambini. Generalmente, siamo bambini nel senso che litighiamo per vedere chi è il più grande, ma il bambino che dobbiamo diventare è quello che sa che tutto ciò che ha, lo riceve. Questa è la vera conversione. Il Regno di Dio è Dio, è il Figlio e noi entriamo in esso come figli, come bambini che vivono di dono e di grazia, come perdonati ed è per questo che graziamo e perdoniamo gli altri. Non è la nostra bravura a farci entrare nel Regno di Dio, perché, se così fosse, basterebbe essere come Paolo, anzi Saulo, il quale pur essendo nella Chiesa, perseguitava i cristiani. Invece, entriamo nella Chiesa per grazia. Questo è il criterio della vera realizzazione, della vera grandezza. La vera grandezza non è di colui che occupa i posti più alti ma è il riconoscere ciò che siamo, è l’umiltà di riconoscerci uomini, ma nello stesso tempo figli e, quindi, divini.

Chi accoglierà uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me. Gesù si identifica con l’ultimo ed è interessante vedere come questa forma di amore si chiami accoglienza. In quanto bambini, noi abbiamo bisogno di accoglienza: i nostri e gli altrui limiti, diventano luogo di accoglienza. Vivendo i nostri limiti con amore e servizio reciproco, poi, accogliamo il Figlio, il divino.

In riferimento agli scandali, Gesù dice che è meglio morire che dare scandalo. Non è che con questa frase, egli esorti al suicidio o all’omicidio, piuttosto intende dire che è molto più grave dare scandalo, che ricorrere al suicidio. Questo perché con lo scandalo indugi l’altro a cadere nel male, uccidi l’immagine di Dio nell’altro. È anche bello vedere come Gesù chiami il male come male e, nello stesso tempo, dice che è inevitabile che esso ci sia, è inevitabile che ci siano scandali, è inevitabile che ci siano zizzanie.

Gesù, dicendo che è meglio tagliarsi una mano, un piede piuttosto che dare scandalo, non vuole certamente esortare alla mutilazione. Con questa affermazione mi viene a dire che ho cento mani per prendere e nessuna per donare: devo tagliare le novantanove mani che distruggono, per tenere l’unica, quella del Figlio; ho mille piedi per seguire tutte le vie di perdizione: devo tenere quel piede che, pur zoppicando, segue le vie del Signore, la via della vita; ho mille occhi (e gli occhi precedono le mani e i piedi) che mi donano desideri che producono morte: devo tenere l’occhio che mi porta a desiderare la vita. C’è davvero tanto lavoro da portare avanti nella vita di ognuno di noi, un lavoro di purificazione, di ascesi, che ci impedisce di essere di scandalo a noi e agli altri.

Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, … Gesù torna ancora una volta a parlare dei piccoli dicendo di non disprezzarli. Noi, generalmente, consideriamo solo i “bravi”, senza considerare affatto coloro che, invece, dovrebbero essere al centro della cura: i piccoli. Perché ci impressiona tanto vedere come Dio scelga persone ingenue, fesse, con handicap, o con altri problemi? Perché queste persone ci ricordano quello che in fondo siamo noi. Si tratta di aver paura dei piccoli perché è in essi che vediamo noi stessi. Gesù viene a dirci di avere grande stima di queste persone poiché esse vivono di dono, vivono da figli e ci richiamano alla nostra essenza: essere figli.

Abbiamo visto i tratti fondamentali della comunità, il cui principio e fondamento sono il Figlio, il piccolo. Abbiamo visto come in essa, i limiti diventano luogo di accettazione, di accoglienza e non di difesa, di attacco, lotta e violenza. La comunità, allora, è il paradiso terrestre. Però resta il fatto che noi siamo il contrario di tutto questo: tra di noi ci sono scandali, ci sono perduti, smarriti e peccatori. E come si fa a tornare all’Eden, al dono originario? Attraverso il perdono. Per cui, la comunità è luogo di peccato, ma anche di perdono. Il nostro posto nella preghiera è quello del pubblicano, del peccatore perdonato, della grazia. Il perdono è il luogo della conoscenza di Dio: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato. (Ger 31,34) Non abbiamo conosciuto Dio come Colui che dona, non ci siamo riconosciuti figli fin dal principio, ma nel per-dono, per forza di cose, capiamo che Lui tutto ci ha donato, ed è nel per-dono che scompare ogni dubbio. Il perdono è la cosa più bella che possa aver donato Dio all’uomo, poiché presuppone il peccato, la realtà, per cui non la nega, non la rimuove. È bello sperimentare come il nostro male diventi luogo di esperienza profonda di Dio (invece pensiamo di raggiungere Dio attraverso la nostra giustizia), di conoscenza di noi stessi, degli altri, di accettazione e di riscatto. Dove abbondò il peccato, lì sovrabbondò la caris.

Dove due di voi sinfonizzeranno sulla terra, per domandare qualunque cosa2.. (Mt 18,19) È una sinfonia il fatto che due persone accordino la voce verso il Padre, è una musica dolcissima. Ma perché otterremo qualunque cosa? Cosa c’è da chiedere e cosa c’è da ottenere? Non dobbiamo chiedere a Dio che, nel nostro giardino, cresca un albero di monete d’oro, ma dobbiamo chiedere ciò che il testo stesso vuol darci. Dobbiamo chiedere la capacità di perdonare, di fare della piccolezza, dello smarrimento, della perdizione e del peccato, un luogo di riconciliazione. Questa è la grande grazia, questo è il dono dello Spirito, questo è il dono dei doni.

Pietro si fa avanti a Gesù e gli dice: “Signore, quante volte peccherà contro me il fratello mio e lo perdonerò fino a sette volte?”. Gli dice Gesù: “Non dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

Per questo è simile il regno dei cieli ad un uomo re che volle fare i conti con i suoi servi. E cominciarono a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti e non avendo da darli, comandò il Signore che fosse venduto lui e la sua donna e i suoi figli e tutto quanto aveva e gli restituisse. Cadendo, dunque, il servo in ginocchio, lo adorava dicendo: “Sii magnanimo con me e ti restituirò tutto”. Commosso il Signore di quel servo lo slegò, lo liberò e gli condonò il prestito. Uscito, quel servo trovò uno dei suoi conservi il quale gli doveva cento denari e, impadronitosi di lui, lo soffocava dicendo: “Restituisci ciò che devi!” Cadendo quel servo, lo supplicava dicendo: “Sii magnanimo con me, ti restituirò.” Egli non volle, ma andando lo cacciò in prigione fino a quando restituisse il debito. Vedendo, dunque, i conservi suoi l’accaduto, si contristarono assai e vennero e raccontarono al Signore loro tutto ciò che era accaduto. Allora, chiamatolo il Signore suo gli dice: Servo malvagio, tutto quel debito io avevo perdonato a te, poiché mi avevi pregato, non bisognava che tu avessi misericordia del tuo conservo come io ho avuto misericordia di te? E adirato il Signore suo, lo consegnò ai torturatori fino a quando non avesse restituito il debito. Così anche il Padre mio celeste farà a voi, se ciascuno non perdonerà al fratello, dal suo cuore”. (Mt 18,21-35)

Il regno dei cieli viene presentato come questo re che fa i conti. Le parabole economiche sono molto belle, poiché l’economico per noi è determinante: sui soldi non si scherza (neanche nella Chiesa)! Il Dio “quattrino”, vale più del Dio trino. Ecco perché vengono usate parabole economiche, perché lì smettiamo tutti di scherzare. Anche Dio ha una sua economia, un modo di amministrare l’esistenza e anche lì, Lui non scherza. Nella parabole c’è questo re che fa i conti e arriva a lui un servo che gli deve diecimila talenti. Per avere un’idea sulla consistenza del debito, bisogna considerare che un talento valeva 35-37 Kg di oro, che diecimila talenti erano pari a 350.000 Kg di oro, ossia 350 camioncini da dieci quintali l’uno, o se vogliamo un corteo di cinque chilometri di carico di oro. Questo è il nostro debito con Dio. Tradotto in giornate lavorative, un talento corrispondeva a seimila giornate di lavoro, cioè venti anni; diecimila talenti erano, grosso modo, duecentomila anni lavorativi. Tra l’altro, il talento è l’unità di misura di peso più grande e diecimila è anche la cifra massima. Ovviamente questa cifra è simbolica, e sta a significare che la cosa è molto più grande di noi. Ciò che dobbiamo a Dio, è qualcosa di infinito, non solo perché gli devo tutto ciò che sono, ma perché gli devo qualcosa di molto più grande: se stesso che si dona a me. Dio mi ha davvero dato l’infinito, infinito che io gli ho rubato, ma che Lui mi ha perdonato. Dio mi ha donato e perdonato. I diecimila talenti sono una pallida immagine di ciò che dovrei a Dio se io avessi dei debiti con Lui. Il guaio è che noi, al contrario di Dio, ragioniamo in termini di debiti, cioè in termini di possesso; Dio, invece, ragiona in termini di dono. Se usciamo dalla logica del dare-avere ed entriamo in quella del dono, è allora che siamo nella logica della vita. Se rimango fermo nella logica del debito, come potrei pensare di restituire a Dio tutto ciò che gli devo? Come ripagarlo del dono della vita? Come ripagare Dio per ciò che mi ha dato? Alzerò il calice e berrò!

Il mio essere figlio, non è un debito ma dono, tuttavia avendo rubato la mia somiglianza con Dio, meglio ancora, avendola sperperata, ecco che nasce il mio debito. Di fronte al mio “non vivere da figlio”, Dio cosa fa? Mi dona il Figlio e, di questo sacrificio, io ne faccio Eucarestia, il centro della mia vita cristiana. Dio mi dona e perdona tutto perché Egli ascolta la mia supplica. Capire il debito, ossia la realtà del mio male, che è conseguenza del mio non vivere da figlio, è importantissimo poiché il mio male muove la compassione di Dio. Ecco allora il senso del cristiano, del battezzato: sono un graziato! Sono graziato della vita, dell’esistenza, ancor più riempito dalla sovrabbondante grazia dello Spirito. Ciò che mi fa nuovo, è proprio questa grazia. Siccome Dio è grazia, amore gratuito, nel mio peccato, conosco Dio e vivo di amore gratuito. Questo è il fondamento della fraternità: sono graziato e, come me, anche gli altri. In questo modo può esserci comunità, cioè se io graziato, faccio grazia all’altro. Anche l’altro ha dei debiti con me, non saranno diecimila talenti, forse saranno cento denari (all’incirca cento giornate lavorative), ma certamente un debito estinguibile, più ragionevole. Il mio rapporto con il Padre, lo vivo attraverso il fratello; se capisco che il Padre ama me gratuitamente, così come ama allo stesso modo l’altro, di conseguenza anch’io amo gratuitamente e anch’io perdono i suoi sbagli. Se non usassi misericordia al mio fratello, vuol dire che ritengo che il Padre mi ami in virtù della mia bravura e non della mia figliolanza.

Questa parabola è il passaggio dalla mentalità della legge, che mi fa sentire in debito, a quella della grazia. È la grazia che permette la comunità: Graziatevi a vicenda, come Dio ha graziato voi in Cristo (Ef 4,32)

È stupendo vedere come, quando chiedo al Padre di essere magnanimo con me, Lui mosso dalla compassione, mi condona il debito e mi lascia libero. Nonostante ciò, al mio conservo, chiedo ragione, chiedo conto. Questo perché vivo una mia economia fraterna che non è quella della grazia ma del debito, del dare-avere. Se sono spietato con mio fratello, vuol dire che ancora non ho ricevuto la grazia del Padre, vuol dire che non ho sperimentato che Dio Padre ama me e lui. È come il figlio maggiore che, fin quando non riconosce il fratello minore, non entra nel banchetto del Padre, poiché non ha compreso che egli è amore gratuito. Se non perdono, non sono perdonato io, ma questo non perché Dio mi nega il perdono, ma perché io non accetto di vivere di perdono. Il mio giudizio che rivolgo all’altro, è lo stesso che rivolgo a me stesso.

Pietro, che ha compreso tutte queste cose, chiede a Gesù quante volte debba perdonare. Signore, quante volte peccherà contro me il fratello mio e lo perdonerò fino a sette volte? Sette volte, infatti, sarà vendicato Caino: è la legge che protegge il violento in modo che la violenza non cresca all’infinito. Ancora, Lamech sarà vendicato settanta volte. Gesù, rispetto alla società di Caino e di Lamech, società della violenza contenuta dalla legge, propone una relazione impostata sulla fraternità, sulla misericordia. La comunità, l’anti-Caino, quindi, ha il suo fondamento non sull’uccisione del fratello, di Abele che fonda la città, di Remo che fonda Roma, non più sul più forte che domina, ma sul piccolo, sul Figlio, sull’accoglienza della libertà, del dono, del per-dono. Questo è il Regno di Dio. Il mondo sarà salvo poiché sarà così, poiché c’è un giusto che porta il male su di sé. Nella violenza dei rapporti del nostro mondo, noi cristiani siamo chiamati a vivere la bellezza dei rapporti fraterni, rapporti di perdono: Non dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

E se non riesco a perdonare? Addirittura Gesù dice di perdonare di cuore. Il cuore infatti ha la facoltà del ricordo: “Perdono, ma non dimentico!”. Se Dio ricordasse…. poveri noi! Allora come fare? Quand’anche non riesco a perdonare, scopro una cosa, che sono peccatore, per cui chiedo perdono del mio peccato, chiedo al Signore la remissione del debito di diecimila talenti. Dove non riesco a perdonare, ho bisogno io di perdono. Due sono le vie: potrei accanirmi con l’altro, il quale è realmente ingiusto e debitore nei miei confronti, oppure, potrei capire che sono io (e questo è il senso del Vangelo) il peccatore, che ancora non ho il cuore del Figlio. Ecco allora che cosa devo chiedere: il cuore di uno che sa vivere di grazia.

Il centro di ogni nostra relazione è il sapersi perdonati, è il proprio Battesimo, è l’aver capito che Cristo è morto per ognuno di noi, ha dato la sua vita per noi, ha donato il suo Spirito, ha condonato i diecimila talenti. La Chiesa, allora, è il luogo in cui ci sono questi rapporti, è luogo in cui l’uomo è amato così come è: piccolo, perduto, peccatore, perdonato, riscattato.

È bello vedere come Matteo, che è il Vangelo ecclesiale per eccellenza, faccia il discorso sulla Chiesa, interamente in questo brano. La Chiesa nel mondo, è il luogo di riconciliazione, è il luogo dove realizziamo, sulla terra, il Regno di Dio.

1 Dio parla solo due volte nel Vangelo. La prima volta si rivolge a Gesù dicendo: “ Tu sei mio Figlio!”. La seconda, nella trasfigurazione, si rivolge a noi: “questo è il mio Figlio prediletto… Ascoltatelo!” Dio non è di molte parole, poiché l’unica parola che ha, è suo Figlio.

2 In diversi punti del Vangelo di Matteo – cap. 7,7; 21,20; … – appare la figura di un Padre che dona ai suoi figli, qualunque cosa essi gli chiedano.