Lectio divina
– Vangeli

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XII-XV settimana del tempo ordinario
Riflessioni spirituali sul Vangelo di Matteo
– Don Antonio Schena –


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MINISTERO IN GALILEA (Mt 8,1-11,1)

SEZIONE NARRATIVA:
ciclo dei miracoli (8, 1-9,34)

Matteo fa seguire al grande discorso della montagna due capitoli narrativi. Sono capitoli strettamente uniti al discorso: lo illustrano e lo completano: Gesù è il Messia della Parola (discorso della montagna) e dell’azione (i miracoli); è il Messia dei poveri, li accoglie e li guarisce. I due capitoli sono articolati in modo intelligente: vi sono tre gruppi di miracoli (8, 1-17; 8,23 – 9,8; 9, 18-34), divisi in due serie di parole. Le parole sviluppano il tema della sequela (8, 18-22) e il tema della messianicità di Gesù (9, 10-17).

 La guarigione di un lebbroso (8, 1-4)

Fino a questo momento, specialmente nel primo grande discorso della montagna, Matteo ci ha presentato il Messia della parola; ora, comincia il secondo quadro (cc. 8-9), che ci presenta il Messia dei fatti, il medico-taumaturgo che agisce di fronte alla necessità umana. E nel presentare questo quadro conviene mettere in evidenza lo scopo concreto a cui mirano questi racconti di miracoli.

Ordinariamente i miracoli sono stati presentati come prove del potere di Gesù e, in ultima analisi, della sua divinità. Gli evangelisti pensano molto diversamente: non presentano mai questi miracoli come prove, ma come predicazione diretta con la parola di Gesù e hanno il suo stesso scopo: scoprire il senso e il contenuto della sua attività.

Matteo ci ha detto chi è Gesù attraverso la sua parola (cc. 5-7); ora, ce ne offre l’immagine con i fatti. Il Vaticano II ci ha detto che la rivelazione si manifesta con le parole e con i fatti strettamente uniti fra loro; e questo appunto fa ora Matteo. La parola di Gesù si completa e si incarna nei fatti, e i fatti garantiscono il valore della parola.

Il lebbroso si rivolge a Gesù chiamandolo “Signore” e si prostra davanti a lui. E’ una confessione di fede. Non dimentichiamo che questa scena è stata messa in scritto dopo la risurrezione e nella luce che il fatto pasquale proiettò su tutto quello che era avvenuto nella vita di Gesù. Gesù è il Signore: fu la prima formula di fede cristiana. Alla presenza del Signore l’atteggiamento corretto dell’uomo è quello di adorazione: è il primo insegnamento che ci trasmette questo racconto.

Secondo Matteo il primo miracolo di Gesù fu per un lebbroso (8, 1-4), il secondo per un pagano. C’è già di che mettere in crisi l’orgogliosa sicurezza dei figli di Abramo. Il lebbroso era bandito dalla società perché contagioso: era facile passare dal corpo all’anima e considerarlo peccatore. Il lebbroso era anche uno scomunicato. Per Gesù, invece, non esistono puri e impuri, toccabili e intoccabili. Gesù lo tocca e guarisce: e questo è il secondo insegnamento di questo miracolo.

Il servo del centurione (8, 5 -13)

Dopo un lebbroso, un pagano. Il contenuto e l’insegnamento dell’episodio sono molteplici e profondi. Per due volte il centurione si rivolge a Gesù chiamandolo Signore. Come nella scena precedente, anche in questa il termine “Signore” va visto alla luce della Pasqua.

La scena del centurione è come un preludio della missione o dell’annunzio del vangelo ai pagani. Gesù approfitta dell’occasione per parlare del trasferimento del regno che dai giudei passerà ai gentili. Il popolo di Dio si costruisce sulla fede.

Per l’evangelista, quindi, l’episodio è il segno di un’attesa di Dio più viva nel mondo pagano che nello stesso Israele. E’ una lezione che Gesù stesso si incarica di esplicitare: “In verità vi dico, non ho trovato tanta fede in Israele”. La fede, ad ogni modo, non si trova sempre dove te l’aspetti, non coincide con gli ambiti istituzionali.

La suocera di Pietro (8, 14 -15)

Se il primo miracolo fu per uno scomunicato e il secondo per un pagano, il terzo avviene nella casa di un discepolo. La guarigione è opera di Cristo e la donna è guarita “per servirlo”. Il plurale di Marco e Luca (“si mise a servirli”) è cambiato al singolare (“si mise a servirlo”). Ogni servizio nella Chiesa è, secondo Matteo, un servizio a Cristo.

Guarigioni ed esorcismi (8, 16 -17)

Chiude il primo trittico dei miracoli una citazione di Isaia (53,4), che ha lo scopo di svelarci il significato profondo dei gesti compiuti. L’evangelista – interpretando i miracoli alla luce dei passi del servo di Jahwè – mostra di scorgere in essi non soltanto la potenza di Dio, ma ancor prima il suo amore misericordioso e la sua volontà di salvezza. Le guarigioni operate dal Messia sono il segno dell’arrivo del tempo della salvezza atteso dal profeta: è arrivato il servo di Jahwè che prende su di sé – per toglierle – le malattie (i peccati) del suo popolo.

Discepolato e rinuncia (8, 18 -22)

Subito dopo la rivelazione di Gesù come Servo di Dio, si affaccia il tema della sequela, che – dopo il racconto di altri tre miracoli – verrà ripreso con la vocazione di Levi (9, 9-13). Tutto è in ombra in questi due racconti, nulla di preciso sull’identità dei due uomini (uno scriba e un altro discepolo) e nulla sull’esito (furono accettati? Hanno rifiutato?). In risalto sono le due affermazioni di Gesù. La prima: farsi discepolo non è semplicemente seguire un messaggio e accettare una dottrina: è condividere in tutto il destino del Figlio dell’Uomo, è lasciare la propria sicurezza per una vita incerta. La seconda risposta (8,21) è paradossale ma chiara. Il secondo discepolo desidera seppellire suo padre. Ciò non significa che suo padre fosse già morto (la sepoltura si faceva normalmente nello stesso giorno della morte), ma che il discepolo voleva aspettare fino alla morte di suo padre per dargli onorata sepoltura. Ma la rinuncia ai legami di famiglia è una delle condizioni per il discepolato: non si può aspettare finché si sia assolto a tutti i doveri familiari, non si sarebbe mai in grado di seguire la propria vocazione. Il tempo è adesso (10,37).

La tempesta sedata (8, 23 -27)

L’episodio della tempesta sedata è un’illustrazione di che cosa significhi essere discepolo. Matteo colloca al centro del racconto il rimprovero di Gesù: “Perché avete paura uomini di poca fede?”. C’è poca fede di chi non ha il coraggio di abbandonare tutto e divenire discepolo. Ma c’è anche la poca fede di chi – avendo rischiato tutto per Cristo – non si sente sicuro e tranquillo quando il Cristo tace. Ci sono discepoli che non sopportano l’apparente silenzio di Dio: hanno poca fede. Lo stupore dei discepoli di fronte all’agire di Gesù (“Chi è costui?”) è comprensibile, perché il dominio sulla tempesta e sulla furia del male, nell’AT, era una prerogativa di Jahwè. I discepoli intravedono che la potenza della divinità è nascosta in un uomo che sta con loro.

Gli indemoniati gadareni (8, 28 -34)

Matteo omette la descrizione di Mc sulla ferocità dell’indemoniato. Nel mondo antico, sia giudaico che pagano, la malattia mentale (o quelle malattie che presentavano delle caratteristiche ripugnanti o che rimanevano inspiegabili) più che quella fisica veniva attribuita al possesso demoniaco. Ciò che preme all’evangelista in questo e altri esorcismi compiuti da Gesù è di dirci che Lui libera gli uomini dalla paura dei demoni. I demoni non hanno alcun potere reale e sono immediatamente soggiogati da una sua parola. La potenza di Dio supera ogni altra potenza. Il racconto è un esempio di un miracolo che non riesce a suscitare la fede, e i vangeli non fanno alcun commento sulle ragioni del fallimento. Matteo omette la richiesta dell’uomo di seguire Gesù (Mc 5, 18-19).

Guarigione e perdono dei peccati (9, 1 -8)

All’episodio della liberazione degli indemoniati Gadareni, segue il miracolo della guarigione del paralitico. A differenza di Marco, Matteo è scarno di particolari, a lui interessa il solo significato religioso e al centro dell’episodio la sola cosa che conta è la fede. L’apparizione dell’ammalato e la sua fede evidente determinano non una guarigione ma una dichiarazione di perdono dei peccati, il che non era la reazione attesa. E tuttavia è in perfetta armonia con il concetto evangelico del miracolo.

Se Matteo è sbrigativo sui particolari, non lo è però sul tema della fede, che anzi sottolinea più di Marco: è sempre e solo la fede che conta, ecco l’insegnamento.

E’ anche interessante la finale del racconto: per l’evangelista la meraviglia della folla non è – come per Marco e Luca – suscitata dal prodigio compiuto, ma sorge perché tale potere – quello di rimettere i peccati – è stato dato agli uomini. E’ la meraviglia dei credenti di fronte a una Chiesa, di fronte a una comunità fatta di uomini, che tuttavia ha il potere di rendere contemporanea l’azione misericordiosa di Dio.

La vocazione di Matteo (9, 9 -34)

Alla guarigione del paralitico segue la chiamata del pubblicano Matteo. I farisei si meravigliano che Gesù siede a mensa con peccatori e pubblicani (9,11). Sono uomini che amano scandalizzarsi, il loro atteggiamento rivela una stortura della fede: pretendono che l’amore di Dio sia solo per i giusti e che la dignità messianica esiga ambienti puliti. Non hanno capito che egli viene a pulire, il Messia non viene a raccogliere i santi, ma a trasformare i peccatori in figli di Dio (9,13). Secondo Matteo questo – più che un rimprovero ai farisei – è una lezione per i discepoli: l’episodio, infatti, è raccontato in un contesto di vocazione.

Ma l’atteggiamento dei farisei rivela anche una stortura morale: la purezza legale (come sedere a mensa con uomini impuri) a scapito della carità, l’esteriorità a scapito dei valori di fondo. Gesù si rifà invece alla predicazione dei profeti (“misericordia voglio non sacrificio”), unanimi e severi su questo punto (Os. 6,16; Is. 1, 10-17).

Le parole di Gesù si tramutano in aperto dissenso, dapprima con i farisei: “Perché il vostro Maestro mangia insieme ai pubblicani e peccatori?”. Poi con i discepoli di Giovanni: “Perché mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?”. Nel primo caso la perplessità nasce dal comportamento di Gesù (i farisei si rivolgono ai discepoli), nel secondo caso nasce dal comportamento dei discepoli (e si rivolgono a Gesù). Ma il discusso è sempre Gesù ed egli reagisce parlando di se stesso.

I farisei e i discepoli di Giovanni digiunavano per affrettare la venuta del Messia e per disporsi ad accoglierlo. I discepoli di Gesù sono convinti che il Messia sia già con loro: è il tempo della festa, non del digiuno. Più avanti lo Sposo sarà tolto (allusione alla croce) e allora verrà il tempo del distacco, della passione e della prova, e si digiunerà (9,15). Ma sarà un digiuno diverso.

Gesù non si accontenta di questa risposta, ma prosegue denunciando il vero motivo per cui i farisei si mostrano perplessi e scandalizzati di fronte ai suoi comportamenti. Essi, infatti, leggono i suoi comportamenti (9, 16-17) partendo dal presupposto che lui e la sua dottrina debbano essere compatibili con le vecchie botti. Invece Gesù è portatore di novità e non è giusto valutarlo sul metro dei vecchi schemi mentali, religiosi e sociali. Va letto con occhi nuovi, disposti a cambiare le botti e il vestito. Il vangelo è incompatibile con la legge, l’opera iniziata da Gesù non è un rattoppo di elementi presi dal giudaismo con affermazioni sue proprie.

Un ultimo trittico di miracoli (9, 18-34) chiude questa sezione narrativa, L’evangelista approfitta di questi ultimi racconti per sottolineare il tema della fede. Alla donna che lo tocca egli dice: “La tua fede ti ha guarita” (9,22). Una donna che aveva perdite di sangue era considerata impura, e impuro diventava tutto ciò che ella toccava. Ma Gesù non bada a queste cose e si lascia toccare. Nel gesto della donna vede un atto di fede, e questo è ciò che conta.

Ancora più esplicito è il racconto della guarigione dei due ciechi (9, 27-31). “Vi sia fatto secondo la vostra fede”.

I miracoli sono sempre legati alla fede, ma non è la fede dell’uomo che guarisce, ma la potenza di Dio. La fede ne è la condizione: Matteo precisa che la donna guarì “in quell’istante”, cioè non quando ebbe fede e neppure quando toccò il mantello di Gesù, ma quando il Signore le rivolse la parola. E’ la parola di Cristo che guarisce e la fede è la condizione perché Dio operi i miracoli. Perché avere fede significa, in sostanza, confessare la propria impotenza e proclamare nel contempo la propria fiducia nella potenza di Dio. Fede è rifiuto di contare su se stessi per contare unicamente su Dio. Il grido degli ammalati che invocano il Cristo esprime sempre questo duplice atteggiamento.

L’evangelista approfitta di questi ultimi racconti per precisare un’altra cosa, e cioè che i miracoli di Gesù ottengono insieme l’assenso e il dissenso. Suscitano l’entusiasmo delle folle: “Non si è mai visto nulla di simile in Israele” (9,31). Ma anche la netta opposizione dei farisei: “Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni” (9,34). Con questa battuta negativa si chiude la prima narrazione dell’attività di Gesù. Stranamente il dissenso nasce soprattutto quando Gesù libera dal demonio: dopo il primo esorcismo fu invitato ad allontanarsi (8,34), e dopo il secondo è lui stesso accusato di essere strumento del demonio.

DISCORSO:
il discorso missionario (9,35-11,1)

La missione dei Dodici (9, 35-10,4)

Matteo introduce il discorso missionario (il secondo dei suoi cinque discorsi) offrendoci un quadro riassuntivo delle attività di Gesù (9,35): percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, proclamando la lieta notizia del regno e sanando ogni malattia. L’intenzione dell’evangelista è chiara: il discepolo non ha una missione diversa da quella del suo Maestro.

In Gesù il desiderio della missione nasce dal vedere le folle “come pecore senza pastore (9,36). L’espressione risale ai profeti e descrive le condizioni del popolo di Dio disperso, senza unità e senza una guida. Cristo vuole essere annunciato dovunque perché vuole unire, togliere gli uomini dalla solitudine e dalla dispersione.

Subito dopo Gesù ricorre a un’altra immagine dei profeti: la messe (9,37). L’immagine era usata per indicare il futuro regno messianico che non sarebbe più stato il tempo dell’attesa e della preparazione, ma della mietitura e della realizzazione. Ecco il tempo è arrivato, tutto è pronto e perciò la missione è urgente: è il tempo del raccolto, che i profeti hanno sempre visto in chiave escatologica: ma l’escatologia (gli ultimi tempi) è già iniziata e la salvezza è qui. La missione dei discepoli, perciò, non è di portare la salvezza ma di annunciare la presenza: il lavoro è di Dio e gli uomini raccolgono.

Incontriamo per la prima volta il gruppo dei dodici. Matteo non distingue la chiamata dei dodici dalla loro missione: la loro principale caratteristica è quelle di essere continuatori della missione del Maestro. E Gesù li invia con l’ordine di limitarsi “alle pecore perdute della casa d’Israele” (10,5). Questo ordine – il cui significato particolaristico sarà superato dal chiaro significato universalistico dell’invio finale da parte del Risorto (28, 10-20) – rivela la situazione storica in cui fu dato: Gesù inviò i dodici in priva nei villaggi d’Israele. Ma se il Vangelo ha conservato questo detto – e lo ha collocato in un discorso che vale per la Chiesa di sempre – è perché contiene anche un significato teologico perenne: Israele è il popolo eletto e l’elezione comporta una priorità. Del resto Gesù stesso ha limitato la sua missione a Israele (15,24). Non si assunse il compito di correre dovunque, ma si limitò a portare a compimento – entro un piccolissimo gruppo – le promesse di Dio. L’indicazione non è trascurabile. Ciò che conta non è correre dovunque e arrivare dappertutto, ma far maturare, anche in un solo luogo, dei valori che hanno in sé una carica di universalità. Conta più essere un segno chiaro dell’amore di Dio sia pure di fronte a un uomo solo (disposti però, naturalmente, ad esserlo di fronte a tutti), anziché a un vasto grigiore diffuso, meglio un piccolo gruppo maturo che diventi “segno e attrazione”, anziché un grande gruppo incolore e amorfo.

Matteo elenca alcune norme che costituiscono lo stile missionario. La prima di esse è la povertà: il discepolo di Cristo mette a disposizione tutto se stesso gratuitamente (la sua fede, il suo tempo, la sua amicizia), e lo fa perché è convinto di avere egli, per primo, ricevuto tutto gratuitamente e in abbondanza. E’ la forma più profonda della povertà di spirito: tutto ciò che è in noi è dono di Dio e degli altri e, perciò, tutto deve generosamente e gratuitamente, tornare a Dio e agli altri. C’è di più: la povertà si esprime nell’accontentarsi di poco, dello stretto necessario (10,9), e nel coraggio (che è fede) di affidare anche quel poco alla provvidenza di Dio.

L’apostolo cerchi un luogo “degno” (10,11), cioè un luogo che non susciti pettegolezzi o altro: sembra che già la chiesa primitiva abbia conosciuto esperienze dolorose in questo senso: falsi apostoli girovaghi che, con la scusa del Regno, andavano qua e là in cerca del meglio. E’ previsto il rifiuto (10,14). Scuotere la polvere dai piedi non è una maledizione: vuol dire che quando il discepolo ha fatto tutto, non deve fermarsi: non ha tempo da perdere. Il tempo è talmente poco e l’annuncio talmente importante che non puoi stare in un solo posto, ostinandoti. Del resto, il compito del missionario non è di forzare ad ogni costo il cuore dell’uomo: non lo ha fatto neppure Cristo. Il compito dell’inviato, quindi, è quello di fare la proposta chiara e convincente e poi di affidarla alla libertà dell’uomo stesso. Il compito del missionario si limita all’annuncio, ed è efficace nella misura in cui l’annuncio è chiaro e provocante.

Infine, Gesù ricorda che la lotta del discepolo contro il male non è ad armi pari: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”. Il discepolo è povero ed esposto, ricco solo di fede nella validità del suo annuncio. La missione esige un ambiente di debolezza, ma la debolezza è colmata dalla presenza del Signore (28,20). Sembra che Dio esiga un ambiente di debolezza per costringere il discepolo alla fede e per togliergli ogni illusione: è Dio che agisce, non sono gli uomini.

La debolezza però non è faciloneria, superficialità, ingenuità. Semplici e prudenti, ecco le parole del Cristo. La semplicità è lealtà, trasparenza, fiducia nella verità e quindi rifiuto di ogni sotterfugio e di ogni mezzo di violenza. La prudenza è la capacità (e l’umiltà) di valutare le situazioni concrete. Ma si tratta sempre della prudenza del Cristo, non della prudenza del mondo che è fatta di calcolo cinico, di diplomazia e compromessi, sempre alla ricerca di una salvezza per se stessi.

Detti sul discepolato (10, 17-11,1)

Questo brano riflette l’esperienza della Chiesa primitiva e allude alla persecuzione sia da parte dei giudei (17) sia da parte dei pagani (18). Questi versi sono una forma ampliata di Mc 13,9 sintetizzata in 24,9 (v. Lc 21, 12-18).

In questa seconda parte del discorso missionario, Matteo si intrattiene sulla persecuzione che accompagna la missione e, quindi, sul coraggio che è richiesto al discepolo. Il brano si può dividere in due parti: la persecuzione (10, 17-25) e il coraggio (10, 26-33).

Il discepolo che ha deciso di seguire il Maestro, non può aspettarsi un destino diverso da quello del Maestro (“Il discepolo non è da più del maestro”). E se per Gesù la via della croce non solo fu prevista, ma voluta, così deve essere per il discepolo: la persecuzione fa parte della missione ed è il segno della sua verità.

Ma il vero motivo per cui il mondo odia Cristo e continua ad odiarlo nei suoi discepoli è espresso da Gesù stesso: “A causa del mio nome”. L’annuncio del discepolo è un giudizio che inquieta il mondo, il Cristo è venuto a fare irruzione nella tranquillità del mondo e delle famiglie. La parola che il discepolo annuncia costringe a prendere posizione e la divisione penetra anche nel cuore delle famiglie (10, 34-36):     la decisione per Cristo porta il fratello a separarsi dal fratello e i figli dai genitori (Mt addolcisce l’ “odiare” trovato in Lc con un “amare di più”). E così il discepolo (il vero discepolo) è considerato un disturbatore, un distruttore dell’ordine, della religione e della convivenza pacifica.

Il discepolo deve comprendere tutto questo e accettarlo coraggiosamente: deve perfino gioire, senza falsi eroismi, però. Perseguitati in una città, si fugge in un’altra: la predicazione del vangelo è il compito primario del discepolo e se gli viene impedito di predicare in un luogo deve spostarsi in un altro.

La seconda parte del brano (10, 26-33) è un invito al coraggio nella persecuzione, al coraggio di parlar chiaro, di gridare il messaggio di Cristo dai tetti, il coraggio di non aver mai vergogna di Cristo di fronte agli uomini.

I motivi che devono sostenere tale coraggio sono così elencate: la certezza di essere nelle mani del Padre; la certezza che condividere la croce di Cristo, significa anche condividere la sua risurrezione, la certezza, infine, che gli uomini nulla possono fare per toglierci la vita.

E’ un coraggio – come si vede – che nasce dalla fede e dalla libertà, ma il coraggio è autentico nella misura in cui si ama Cristo più di ogni altra cosa (10, 37-39). Solo così il discepolo è libero da se stesso e non ha più nulla da difendere, quindi non è ricattabile. Soprattutto il discepolo deve sapere che il più è al sicuro, nelle mani di Dio.

L’ultima parte del grande discorso missionario non è più rivolta ai missionari, ma a coloro che li accolgono: è come accogliere Cristo. Nel concetto di accoglienza è in primo piano l’aspetto di ascolto, di accettazione del messaggio che i missionari portano. L’ultima espressione di questo brano però è riservata all’ospitalità, l’aiuto, il servizio (“chi darà da bere…): il missionario è un piccolo, cioè un uomo comune, debole e bisognoso. Ha lasciato la casa per essere un nomade, per vivere sulle strade, sempre a disposizione degli altri, ma come capita agli uomini comuni, la strada lo logora.