Lectio divina
– Vangeli
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X-XXI settimana del Tempo Ordinario
Alla sequela di Gesù nel Vangelo di Matteo
Spunti per un percorso di lectio divina sul Vangelo di Matteo

Il Mosissumus Moses:
dal discorso della montagna al discorso escatologico
Prima Meditazione
Una delle più importanti caratteristiche del vangelo matteano è la presenza di cinque lunghi discorsi, pronunciati da Gesù in persona. Sembra che Matteo abbia voluto raccogliere i detti o i loghia di Gesù, che circolavano tra i discepoli, parte dei quali raccolti nella cosiddetta fonte Q o Quelle, intorno a delle grandi tematiche. Da questa originalissima intuizione ne viene fuori una straordinaria consegna, che certamente è in sintonia su come Gesù parlava, dal momento che Matteo è stato uno degli apostoli e come tale ricordava il modo, con cui il Maestro parlava ai Dodici e ai suoi interlocutori, in genere. I cinque discorsi ci permettono di strutturare il vangelo matteano secondo uno schema ben preciso, dato proprio dalla loro presenza, dal momento che lo stesso evangelista precisa l’inizio e la fine di ognuno di essi. L’inizio è determinato dalla descrizione dello scenario e dall’imput molto forte, con cui viene avviato; la conclusione è specificata con una formula molto precisa, che ritorna quasi a mo’ di ritornello:
– PRIMO DISCORSO o discorso della montagna: inizio: Mt 5,1-2: 1Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 2Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo…; conclusione: Mt 7,28-29: 28Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: 29egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.
– SECONDO DISCORSO o discorso apostolico: inizio: Mt 10,5: Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti…;conclusione: Mt 11,1: Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici apostoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.
– TERZO DISCORSO o discorso parabolico: inizio: Mt 13,3: Egli parlò loro di molte parabole. E disse…; conclusione: Mt 13,53: Terminate queste parabole, Gesù partì di là…
– QUARTO DISCORSO o discorso ecclesiologico: inizio: Mt 18,1-2: 1…i discepoli si avvicinarono a Gesù, dicendo: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». 2Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse…; conclusione: Mt 19,1: Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea…
– QUINTO DISCORSO o discorso escatologico: Mt 24,1-3: 1…gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del Tempio… 3Sedutosi poi sul monte degli Ulivi, i suoi discepoli gli si avvicinarono… 4Gesù rispose…; Mt 26,1: Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli…
Si tratta, quindi, di cinque discorsi ben precisi e ben strutturati, quasi una sorta di insegnamento in crescendo, che inizia con il cosiddetto discorso della montagna, rivolto alle folle, e quindi a tutti; segue con il discorso apostolico, rivolto ai Dodici soltanto, ma inserito nel Vangelo perché tutti lo devono conoscere; quindi il discorso in parabole, ancora rivolto a tutti; quello ecclesiologico, riguardante la Chiesa, e rivolto quindi ai soli discepoli; il discorso escatologico, pronunciato sul monte degli Ulivi, riguardante gli eventi ultimi della vita, rivolto ai Dodici e ai discepoli, chiude, con una sorta di inclusione, data dall’immagine del monte all’inizio e alla fine, l’insegnamento del Maestro. Grazie alla presenza di questi cinque discorsi Matteo può colorare la sua visione di Gesù di Nazareth nella prospettiva veterotestamentaria della liberazione esodale, attuata e realizzata da Mosè. Se Mosè ha liberato Israele e gli ha consegnato la Legge, ossia la Torah, Gesù è il Mosissimus Moses, il vero Mosè. Egli è il Mosè per eccellenza, o meglio il Mosè all’ennesima potenza, perché consegna ai suoi discepoli la vera Torah, o meglio la Torah portata a compimento. Per cui, se i cinque libri del Pentateuco erano la legge donata a Israele, la nuova torah diviene la legge dei discepoli di Gesù. Non solo è la legge, portata a compimento, ma è anche nuova perché, a differenza della prima, è salvifica e liberante. Essendo quello di Matteo un vangelo giudaico, rivolto cioè a cristiani convertitisi dal giudaismo, esso si propone di sostenere la fede di questi convertiti, facendo vedere la continuità con l’Antico Testamento, ma nell’assoluta novità, data dalla persona e dal mistero di Gesù, il Mosissimus, il vero Mosè.
I cinque discorsi sono così il compimento della torah. Il primo (Mt 5,1-7,27), che si apre con le beatitudini e si chiude con la parabola della casa sulla roccia, contiene nel suo interno la necessità del superamento (agli antichi fu detto, ma io vi dico), le pratiche della carità e della preghiera (non fate come gli ipocriti che ostentano la propria religiosità e quando pregate dite…), la vita nuova del discepolo (guardate gli uccelli del cielo e i gigli dei campi…); il secondo discorso (Mt 10,5-42) sottolinea lo stile nuovo dell’apostolo di Gesù, che si rivolge per ora alle sole pecore perdute di Israele con uno stile di povertà e di persecuzione sofferta e subita per la causa del regno, ma con la certezza che voi valete più di molti passeri (Mt 18,30-31); il discorso in parabole (Mt 13,3-52) è un interessante intreccio di insegnamenti parabolici secondo lo stile profetico nella linea messianica (cfr Is 6,9-10): la strategia di raccontarle a tutti e di spiegarle in privatoè indice di una possibilità di comprensione all’insegna dell’intimità. Le parabole, così, provocano l’incomprensione di chi è accecato e duro di cuore e, al contrario, la comprensione per chi è capace di entrare nell’orizzonte della rivelazione e dell’amore. Il discorso ecclesiologico (Mt 18,3-35) rivela l’atteggiamento proprio di chi appartiene alla comunità cristiana all’insegna della piccolezza del bambino e del perdono. Infine, il discorso escatologico (Mt 24,1-25,46) rivela la verità ultima della storia nel riconoscimento di Gesù non in chi ingannevolmente si presenta nelle sue vesti (Mt 24,5), ma nei suoi fratelli più piccoli (Mt 25,40.45).
I cinque discorsi matteani sono così la consegna della torah, la nuova legge, che porta a compimento il Pentateuco veterotestamentario nella novità, data dallo stile delle beatitudini e dalla valorizzazione dei più piccoli, nei quali si identifica la persona stessa di Gesù. Beato è, così, colui che riconosce nel Vangelo di Cristo la libertà della Legge, portata ora al compimento definitivo nella persona del mosissimus Moses. Facendo riferimento ai testi del Sinai, il Mosè del Nuovo Testamento li porta alle estreme conseguenze, radicalizzandoli e centrandoli nel cuore della sua persona e nel cuore di ogni uomo.
Se nella genealogia non compare il nome di Mosè, si potrebbe frettolosamente concludere che questo particolare personaggio dell’Antico Testamento ha poca rilevanza nella lettura teologica del primo evangelista. Per di più, di Mosè si parla poco all’interno dell’intero Vangelo. Le uniche menzioni riguardano la prescrizione mosaica di presentarsi ai sacerdoti (Mt 8,4), alcune polemiche con gli avversari (Mt 19,7.8; 22,24) e l’apparizione insieme ad Elia nella Trasfigurazione (Mt 17,3.4). A parte questi brevi accenni, tra l’altro non originali, ma attinti dalla tradizione o meglio dalla fonte marciana, sembrerebbe effettivamente che Mosè sia praticamente del tutto assente nella prospettiva cristologica matteana.
Interessante, però, risulta il loghion specificamente matteano (Mt 23,2), dove Gesù condanna l’ipocrisia tipicamente farisaica, che sdoppia di fatto la vita dei farisei, in quanto il loro insegnamento non corrisponde alle loro azioni. Ed è proprio questo, forse, il testo rilevante, per individuare un’interessante teologia matteana alla luce dell’esperienza mosaica nell’Antico Testamento. L’espressione “Sulla cattedra di Mosè” riflette la grande autorità riconosciuta a Mosè, ossia alla Legge. E la Legge è esattamente la torah, ossia il Pentateuco, scritto da Mosè. Anche se apparentemente troppo poco, questo interessante loghion matteano evidenzia la radicale differenza tra lo stile tipicamente farisaico di rapportarsi alla legge mosaica e la novità apportata da Gesù. Ed, infatti, l’intero vangelo di Matteo sembra evidenziare esattamente il senso del compimento scritturistico alla luce della perfezione della vera intenzionalità della Legge.
Ma Matteo sembra andare oltre ed effettivamente dipingere Gesù con i tratti del vero Mosè. Già al momento dell’infanzia, gli eventi, riguardanti la strage degli innocenti e la fuga in Egitto con relativo ritorno in Palestina, non possono non ricordare al lettore, esperto di Sacra Scrittura, gli avvenimenti esodali relativi alla nascita di Mosè e all’uccisione dei bambini ebrei. Ma è soprattutto l’insistenza sul compimento delle profezie (Mt 1,22-23; 2,15.17.23; 4,14-16; 8,17; 12,17-21; 13,14.35; 26,31.56) e la perfezione dell’opera di Dio in Gesù (cfr Mt 5,20.48; 19,8) che determina la volontà precisa del primo evangelista di presentare Gesù come il mosissimus Moses, che con la sua nuova legge porta a compimento l’antica legge mosaica. I cinque discorsi appaiono così come la consegna della nuova legge, la legge della libertà, che Gesù, nuovo e vero Mosè, dona ai suoi discepoli.
Dalla genealogia al monte della resurrezione
Seconda Meditazione
Il Vangelo di Matteo si apre con la genealogia di Gesù Cristo, figlio di Abramo e figlio di Davide, e si chiude con l’apparizione del Risorto sul monte della Galilea, fissato da Gesù. Sembrerebbero, a prima vista, due testi molto distanti l’uno dall’altro, ma in realtà, abbracciando l’intera trama matteana all’inizio e alla fine, evidenziano da una parte il radicamento nella storia dell’Antico Testamento e dall’altra la novità del Nuovo Testamento, data proprio dalla Pasqua del Signore.
Se all’inizio l’autore presenta la discendenza di Gesù con lo scopo preciso di collegare la vicenda storica del Nazareno con gli eventi dell’Antico Testamento, sul monte della resurrezione l’evangelista mira a far contemplare la novità dell’esperienza pasquale. È come se l’evangelista da una parte annota che la vicenda riguardante Gesù di Nazareth è fortemente ancorata nelle radici veterotestamentarie, ma dall’altra essa è una storia del tutto originale, totalmente nuova, immersa nella più profonda novità. Le radici veterotestamentarie assicurano che la fede in Gesù di Nazareth è fortemente legata alla fede di Abramo e alla discendenza davidica, e quindi alla fede d’Israele, ma l’evento della resurrezione la trascende e la proietta verso la novità più radicale e assoluta. Si tratta, quindi, di una e propria cornice ermeneutica, nella quale l’evangelista Matteo ha voluto inserire il suo racconto evangelico, per fornire al lettore la giusta chiave di lettura delle vicende riguardanti Gesù di Nazareth. Egli è il profeta per eccellenza (cfr Mt 16,14), il Messia e l’unto del Signore, l’atteso d’Israele (cfr Mt 16,16), ma che ha rivelato se stesso nella prospettiva pienamente nuova della Pasqua di resurrezione.
Scorrendo i versetti relativi alla genealogia, il lettore si imbatte in uno scorrere di nomi, tripartiti da uno schema ben preciso di quattordici generazioni: la storia pre-monarchica da Abramo a Davide, quella monarchica, da Davide fino alla deportazione; la storia post-monarchica, dalla deportazione a Giuseppe. L’inserimento delle quattro donne dà alla lista un tono particolarmente significativo (è come se l’evangelista ricordi al lettore che dietro ad ogni uomo c’è sempre una donna!). Il tutto sembra proiettato verso Maria, la madre di Gesù, dove il nome della quinta ed ultima donna permette di dare al racconto una svolta totale e radicale a trecentosessanta gradi, perché il Cristo, non viene da Giuseppe, l’ultimo discendente di Abramo e di Davide, ma da Maria Santissima. L’autore si trova così costretto a fornire al lettore ulteriori comunicazioni, per spiegare che quanto sta per raccontare è sì una storia ancorata nei profeti e nei patriarchi, ma è del tutto nuova a motivo dell’incarnazione del Cristo nel seno purissimo di Maria purissima.
Dopo aver letto l’intera trama matteana, con i cinque discorsi e gli oracoli di compimento, ecco che il lettore dopo la passione e morte si imbatte nell’ultimo episodio, che chiude il racconto evangelico. Stranamente non siamo nel cenacolo di Gerusalemme, come negli altri racconti di apparizione, ma a Galilea, su un monte, non altrimenti specificato. È il monte della Galilea; il monte della resurrezione. Gli undici si trovano lì in seguito ad un appuntamento, che essi hanno ricevuto grazie alle donne. Si tratta del monte che Gesù aveva loro fissato. Il monte si riveste qui di un simbolismo sorprendente. Anche in precedenza Matteo ha parlato di altri tre monti: il monte del primo discorso (o discorso della montagna), il monte della trasfigurazione (o monte Tabor), il monte della morte (o monte Calvario). Qui siamo sull’ultimo monte, il monte della Pasqua. I discepoli si ritrovano qui a tu per tu con il Risorto. È il loro primo incontro con Gesù dopo la morte sul Calvario. Matteo ci parla di visione, di prostrazione e di dubbio. È descritta in tre pennellate l’esperienza pasquale. La visione ora è nuova (quando lo videro): si tratta della visione di fede, che è frutto di una rivelazione. Davanti ad una tale e sorprendente visione, la conseguenza è la prostrazione, ossia il cadere davanti a Dio (come in precedenza i Magi e tutti coloro, che hanno incontrato Gesù, chiamandolo “Signore”). Il dubbio, infine, è la caratteristica stessa della fede, perché altrimenti sarebbe certezza; la fede, al contrario, è un fidarsi e, al tempo stesso, un affidarsi. Segue l’avvicinarsi del Risorto e la manifestazione del potere divino. La missione di andare, per insegnare e battezzare, chiude il racconto, con l’assicurazione che egli sarà per loro l’Emmanuele (cfr Mt 1,23), ossia per sempre loro compagno di strada.
L’infanzia di Gesù: l’esodo della liberazione
Terza Meditazione
L’evangelista Matteo, attingendo dal vangelo di Marco e da un libretto, contenente alcuni detti o loghia del Signore, chiamata Quelle o fonte Q, e probabilmente anche da altre fonti, inizia il suo vangelo con il racconto di alcuni fatti, riguardanti l’infanzia del Signore. Oltre a Matteo, lo fa anche Luca, mentre gli evangelisti Marco e Giovanni la ignorano del tutto. Perché questa attenzione all’infanzia? Perché l’evangelista Matteo è attento a quanto è accaduto nei primissimi anni della vita di Gesù?
Era una prassi della storiografia antica vedere già negli eventi prodigiosi della nascita quel che in seguito sarebbe stato il futuro condottiero o leader o sovrano. E certamente l’evangelista Luca non è esente da questa prospettiva, quando decide di raccontare gli eventi dell’infanzia fino al Gesù dodicenne, anche se nei suoi racconti soggiacciono le prospettive dei racconti dell’Antico Testamento. Ma Matteo sembra andare un po’ oltre e presenta gli eventi dell’infanzia nella prospettiva messianica del compimento e nell’orizzonte dell’esodo della liberazione. Sembra quasi che tutto ciò che accadde al momento della liberazione mosaica, qui si compia sin nei dettagli e nella prospettiva della vera liberazione. Il Gesù, che nasce a Bethlemme non è solo il Messia, ma è anche il liberatore e colui che sintetizza l’intera economia vetero-testamentaria, compiendo non solo i singoli oracoli profetici, ma l’intera economia della salvezza, che ha il suo perno e il suo fulcro nell’esperienza esodale della liberazione. Raccontando, quindi, l’infanzia di Gesù, Matteo fa teologia; racconta cioè la realizzazione della salvezza, operata dall’avvento del Messia-liberatore.
La prima caratteristica del racconto matteano dell’infanzia è la generazione di Gesù. Il primo versetto è posto quasi a mo’ di titolo. E, in effetti, lo è. È il titolo dell’intero vangelo: Genealogia (ghénnesis, cioè origine) di Gesù (il nome) Cristo (cioè il Messia), figlio di Davide (il discendente della dinastia davidica), figlio di Abramo (figlio a pieno titolo del popolo d’Israele – da notare l’importanza dell’essere figlio di Abramo nella cultura e nella fede giudaica).Quello che segue non è un semplice elenco di nomi, nudo e crudo, ma all’orecchio attento del lettore giudeo è la storia d’Israele, che si cela dietro ogni nome fino a Giuseppe, fino a Gesù. Ciò che sta a cuore all’evangelista è delineare l’origine di Gesù, ossia la sua appartenenza al popolo abramitico e la discendenza davidica. Le due identità è possibile scorgere in Gesù di Nazareth, che è così figlio di Abramo e figlio di Davide.
Nell’albero genealogico compaiono, di tanto in tanto, anche delle donne (Tamar: cfr Gn 38,1ss.; Racab: cfr Gs 2,1ss.; Rut: cfr l’intero libro di Rut; Betsabea: cfr 2Sam 11,1ss.), fino a Maria, da cui direttamente discende Gesù. Sorprende la scelta di queste donne, soprattutto perché l’evangelista poi ignora le matriarche, come Sara o Rebecca, e al contrario menziona donne piuttosto discusse o addirittura straniere. Non c’è dubbio che nell’intenzione di Matteo emerge la sottolineatura di una storia, anche peccaminosa o comunque non sempre secondo i parametri e gli schemi di Israele, che però giunge al tempo del compimento delle promesse messianiche. Sembra dire l’evangelista: Dio assume questa storia e all’interno di essa fa irrompere la sua potenza. E, infatti, i versetti 18-25 sottolineano proprio l’irruenza della potenza divina (lo Spirito Santo) all’interno della storia degli uomini. Questi versetti sembrano voler spiegare quanto affermato nel v. 16, che si distingue dai precedenti sia nella sua struttura schematica (soggetto; predicato; complemento oggetto) e sia soprattutto nel contenuto. Il lettore, che si sta aspettando di leggere l’espressione: Giuseppe generò Gesù, si trova sostanzialmente spiazzato, perché dopo un elenco di generazioni tutte al maschile, viene a sapere che Gesù viene direttamente da Maria, con una sorta di spiazzamento a 360°.
L’evangelista si serve del dramma di Giuseppe, dei suoi dubbi e della sua incapacità a comprendere, per sottolineare nella generazione di Gesù l’irrompere della grazia, che supera e oltrepassa i parametri puramente umani. Il giusto Giuseppe è chiamato così a superare la giustizia ipocrita degli scribi e dei farisei, semplicemente legalistica e attenta alla lettera della Legge, per fare propria la giustizia divina (cfr Mt 5,20) e accogliere Maria e quello che è in lei.
All’interno di questo travaglio umano, rappresentato da Giuseppe, il figlio di Davide, ossia il discendente davidico, il lettore si imbatte per la prima volta in una particolare formula matteana, che poi ritroverà altre volte nel racconto dell’infanzia e nel resto del vangelo (Mt 1,22-23: Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi; cfr Is 7,14; 8,8). È interessante qui che l’incomprensione di Giuseppe e l’irrompere di Dio sia collegato dall’evangelista con la profezia dell’Emmaneuele, che Matteo vede pienamente compiuta nelle vicende che sta raccontando. Anche lì c’era un discendente davidico, il re Acaz; anche lì l’Emmanuele, ossia il figlio della vergine o della giovane sposa (halmat) è opera esclusiva di Dio; anche lì era necessario credere per avere stabilità (cfr Is 7,9).
I versetti 2,1-12 (l’arrivo dei Magi) aprono lo scenario nuovo, riguardante ciò che accade dopo la nascita del Signore e sono direttamente collegati con gli eventi raccontati nei versetti 13-18 (strage degli innocenti) e 19-23 (ingresso nella terra promessa). La vicenda di Gesù, che si concretizza nella piccola ed insignificante città di Bethlemme (raggiunge qui la storia universale, rappresentata dai saggi, provenienti da oriente; ed è parallela con gli eventi esodali della liberazione, che di fatto si compiono perfettamente alla nascita del Salvatore, così come era accaduto ai tempi di Mosè, il liberatore di Israele. Il racconto dell’arrivo dei Magi è splendidamente sapienziale ed è l’icona del cammino di ogni uomo, illuminato dalla ricerca dell’intelligenza e della ragione con il rischio e il pericolo dell’errore umano (i magi vanno da Erode, a Gerusalemme), ma perfezionato dalla luce della parola di Dio (cfr Mt 2,5-6).
Ciò che segue (vv. 13-18) ricalca la vicenda esodale (strage degli innocenti = uccisione dei bambini ebrei; cfr Es 2,15.22) e la necessità per Gesù di compiere il percorso di liberazione, proprio di Israele (cfr la citazione di Os 11,1 = Mt 2,15). La lettura teologica degli eventi dell’infanzia illumina la vicenda intera, riguardante Gesù di Nazareth, nella luce del compimento scritturistico e dell’irrompere in modo nuovo di tutta la potenza divina negli eventi della storia umana.
Gesù è il compimento della Scrittura
Quarta Meditazione
Delle oltre ben 60 citazioni dell’Antico Testamento, il lettore attento, sfogliando il Vangelo di Matteo, coglie la presenza di alcune formule più o meno identiche, attraverso le quali l’evangelista, di tanto in tanto, collega particolari eventi della vita di Gesù con alcuni specifici oracoli o brani dell’Antico Testamento. Sin dall’infanzia, ciò che accade al bambino Gesù è posto in parallelo con alcune delle più importanti profezie messianiche ed esodali (Mt 1,22 = Is 7,14; Mt 2,15 = Os 11,1; Mt 2,18 = Ger 31,15; Mt 2,23; cfr Is 11,1; 53,2), al fine di scorgere negli eventi raccontati il compimento dell’esperienza della liberazione. Gesù, in tal modo, appare come Mosè, il liberatore e il vero salvatore del suo popolo. Ma anche lo spostamento da Nazareth a Cafarnao (Mt 4,14-15 ), più che un semplice cambio di residenza, è visto da Matteo come il compimento scritturistico della profezia di Is 8,23b-9,1; così pure l’ingresso trionfale a Gerusalemme (Mt 21,4) è letto come compimento di Zc 9,9. Ma è soprattutto nelle due principali attività di Gesù che Matteo vede il compimento degli oracoli profetici. L’attività taumaturgica compie precisamente la profezia di Is 53,4 e quella omiletica compie le due profezie di Is 6,9-10 e del Sal 78,2. All’interno di questo orizzonte scritturistico l’elemento culmine del compimento della Scrittura è dato precisamente dalla più lunga citazione profetica, presente quasi al centro del Vangelo, dove Gesù è dipinto dall’evangelista Matteo con i tratti del Servo di Yahvé (Is 42,1-4). Al momento della cattura, infine, tutte le profezie si compiono nella persona di Gesù.
Il quadro, che emerge dall’elenco degli oracoli scritturistici, perfettamente compiuti dalla persona di Gesù negli eventi, che egli decide di vivere, è la sua ferma convinzione di un compimento profetico pienamente realizzato, di cui Gesù è perfettamente cosciente. Soprattutto la citazione centrale, la più lunga di tutto il Vangelo di Matteo, è tale da proiettare luce sulla vicenda di Gesù nella linea messianica del Servo del Signore. È, dunque, Gesù il Servo, che Dio si è scelto; egli è il suo eletto e il suo amato, nel quale Dio ha posto il suo compiacimento. Dio stesso ha posto il suo spirito sopra di lui, perché Gesù annunci la giustizia alle nazioni. Egli opera in modo del tutto originale, perché non contenderà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà, inoltre, una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia; e nel suo nome troveranno speranza tutte le genti.
La passione di Gesù come compimento di tutte Scritture
Quinta Meditazione
Sorprende che, dopo aver di volta in volta collegato alcuni eventi della vita di Gesù con alcune delle profezie veterotestamentarie, giunti al momento della cattura l’evangelista Matteo annota che ciò sta accadendo, perché si adempissero le Scritture dei profeti (Mt 26,56). Questa espressione, posta per la prima volta sulla bocca di Gesù stesso e richiamata poco prima sempre da Gesù medesimo (cfr Mt 26,54), rimanda il lettore ai tanti precedenti compimenti scritturistici. È come se l’autore del Vangelo stesse dicendo: Se ora tutte le profezie si stanno compiendo, è logico pensare che soprattutto stiano giungendo a compimento quei particolari testi scritturistici richiamati in precedenza. È vero che essi si sono compiuti nei dettagliati eventi raccontati, ma siccome ora si sta parlando di un compimento globale delle profezie, è ragionevole ritenere che quelle precedentemente citate, o meglio, soprattutto quelle, raggiungano ora il loro ultimo e definitivo compimento.
Tra queste, sembrano avere un’importanza decisiva le due citazioni dei canti del Servo: Is 53,4, menzionata in Mt 8,17, in riferimento all’attività taumaturgica, e Is 42,1-4, citata in Mt 12,18-21, in riferimento allo stile ministeriale del Cristo. Dal quadro generale, relativo alle citazioni di compimento, il lettore coglie la centralità della profezia di Is 42,1-4 = Mt 12,18-21. Posta quasi al centro della trama narrativa, questa citazione non compie un particolare evento o una particolarità ben precisa dell’attività di Gesù, ma sembra riferirsi esattamente al suo stile profetico, con il quale egli realizza esattamente il proprio ministero messianico. E lo compie precisamente alla luce del Servo del Signore, con le stesse e medesime specifiche modalità, descritte dalla profezia deutero-isaiana. Sembra quasi che questo testo profetico serva all’evangelista Matteo a descrivere lo stile, con cui Gesù ha voluto realizzare la sua particolare missione messianica. Ciò sembra confermato dal contesto immediato relativo alla decisione da parte dei Farisei di fare fuori Gesù (Mt 12,14) con il suo conseguente allontanamento e la decisione di guarire i malati. Ma è l’intero contesto dei capitoli 11-12 che proietta luce sulla citazione deutero-isaiana. Infatti, l’idea matteana dell’opera di Gesù è conforme a quella descritta nel poema del Deutero-isaia, soprattutto in riferimento al suo particolare rapporto con Dio, così come è descritto in Mt 11,25-27, e relativamente alla sua sostanziale mitezza e umiltà di cuore (Mt 11,28-30). A partire da Mt 11,2 ha inizio un interessante percorso circa l’identità di Gesù, che giunge a conclusione propria con la citazione di Is 42,1-4, che rivela la personalità avvincente del Signore, accolta dagli umili e rifiutata dagli avversari.
Allo stesso modo, il compimento di Is 53,4 è visto da Matteo nel quadro della missione profetica del Servo sofferente, che si carica delle malattie e dei dolori dell’umanità, per liberarla e redimerla. Anche qui va notato che il testo profetico, citato da Matteo, è esattamente il momento della svolta relativa all’illuminazione accolta dal gruppo o noi confessante e testimoniante. È esattamente questa rivelazione, che ha permesso al gruppo corale di comprendere esattamente come stavano le cose relativamente alla persona del Servo, che apparentemente sembrava represso e malvagio, ma in realtà lui ha preso su di sé le colpe di tutti. È proprio l’inizio della svolta interpretativa che l’evangelista cita in riferimento al ministero taumaturgico di Gesù: addossandosi le nostre iniquità, lui, l’innocente, il giusto e il santo, ha compiuto totalmente la profezia del Servo sofferente di Is 52,13-53,12. Veramente, quindi, il Gesù è il taumaturgo, che compie la profezia del Servo sofferente (Mt 8,17 = Is 53,4), nel quale sperano le genti (Mt 12,21). Le due citazioni, attinte dai canti del Servo, applicate e comprese in chiave di compimento cristologico, confermano che il Gesù matteano compie la profezia del Servo nella guarigione dalle lividure e nella salvezza rivolta a tutte le nazioni (cfr Mt 12,21; 28,19-20). Dallo stupore alla fede. Nell’introdurre il proprio racconto sulla vicenda del Servo sofferente (Is 52,14-15), Isaia afferma che in riferimento a quanto sta per raccontare ci sarà stupore e meraviglia da parte di molti e da parte delle nazioni, a motivo dell’aspetto sfigurato del Servo e a causa della sua forma diversa da quella dei figli dell’uomo. Persino i re si metteranno a tacere, chiudendosi la bocca, perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno un qualcosa di inaudito (cfr Rm 15,21).
Parlando di stupore e di meraviglia per un tale avvenimento così sorprendente e stupefacente, il profeta si appresta a raccontare una vicenda paradossale, il cui protagonista è certamente il Servo del Signore, ma il suo effetto riguarderà le genti, le moltitudini e soprattutto coloro che ne sono stati spettatori e testimoni. Essi proveranno meraviglia e stupore nel vedere questo fatto paradossale e nel comprendere un qualcosa di sorprendente. Meraviglia e stupore, dunque, sono provocati dal vedere e dal comprendere: vedranno il Servo sfigurato e senza forma e comprenderanno un qualcosa di veramente mai prima raccontato, veduto e udito. Questa introduzione solenne è posta dall’autore sulle labbra di Dio stesso: questi presenta il suo Servo (Is 52,13), parlando di esaltazione e glorificazione, e nello stesso tempo di meraviglia e stupore per coloro che ne saranno coinvolti. Ma di questo avvenimento sconvolgente saranno i testimoni, quasi increduli (Chi avrebbe creduto alla nostra predicazione? A chi sarebbe stato rivelato il braccio del Signore: Is 53,1; cfr anche Rm 10,16; Gv 12,37), a raccontare il suo svolgimento in tutti i suoi dettagli e le sue particolarità (Is 53,2-11a). Infine, sarà Dio stesso a chiudere il poema, ponendo il suo sigillo sul racconto fatto dai testimoni (Is 53,11b-12). Dopo l’introduzione riguardante probabilmente la crescita e l’origine messianica del Servo, presentato qui come virgulto (cfr Is 11,1-10; Ger 23,5-6; Zc 3,8; 6,12), che ha le sue radici nella terra arida della discendenza davidica, ormai decaduta in seguito alla deportazione e all’esilio, il profeta passa subito a presentare la drammatica situazione di sofferenza e dolore del Servo del Signore (Is 53,2c-3).
Ciò che colpisce il noi narrante è la situazione di estrema disumanità del Servo, il quale è descritto senza alcuna apparenza né bellezza e senza splendore, al punto che nessuno di noi è attratto da lui né prova alcun senso di compiacenza. Al contrario, egli sembrava ai nostri sguardi malati e ai nostri occhi accecati come uno che merita disprezzo, che è reietto, come l’uomo del dolore, che ben conosce il patire, al punto che tutti ci coprivamo la faccia davanti a lui, per non vederlo e lo disprezzavamo e non sentivamo alcuna stima. Al v. 4 inizia la fase della svolta, introdotta dall’avverbio Eppure (‘akēn), che indica un totale cambiamento di rotta e di prospettiva, dal momento che noi eravamo totalmente all’oscuro, considerandolo anzi un iniquo e un malfattore. La verità, però, era esattamente all’opposto, perché Lui era innocente e buono (cfr Is 53,4-5a); e peccatori e infami eravamo noi; ma le sue piaghe ci hanno guarito e il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui (Is 53,5); per questo “Egli vedrà la luce” e “si sazierà della sua conoscenza (cfr Is 53,11). L’effetto positivo sul gruppo corale sarà la fede nel Servo del Signore, ossia la scelta di credere in quell’evento paradossale, che diventa autentica svolta esistenziale (cfr Is 52,14-15; 53,11-12).
Più che la passione di un eroe è raccontata qui la conversione di un testimone; si tratta, pertanto, della storia di coloro che ricevono l’effetto di questa passione e si convertono, illuminati dalla luce proveniente dal Servo del Signore. L’introduzione di Is 53,1 (Signore, chi avrebbe creduto alla nostra predicazione?) è il punto nodale del racconto e nello stesso tempo il punto nevralgico del testo, perché rileva la difficoltà dei testimoni convertiti di illuminare con il proprio annuncio altri destinatari. È stata la difficoltà della Chiesa nascente ed è la difficoltà della Chiesa di tutti i tempi, perché l’oggetto dell’annuncio è davvero qualcosa di estremamente inaudito ed umanamente inaccettabile, ma che si accoglie con lo stupore e la meraviglia, attraverso cui si accede alla fede.
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