Lectio divina sul Vangelo di Marco (2)
Passi nella fede con il Vangelo di Marco
Il lunedì della prima settimana del Tempo Ordinario iniziamo la lettura del vangelo di Marco. Ecco i testi delle lectio per la prima settimana.
Vedi testo:
Lectio divina sul Vangelo di Marco (2)
Lectio divina sul Vangelo di Marco (2)
PRIMA LECTIO
“Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1-8)
Fede e adempimento delle Scritture
1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. 2 Come è scritto nel profeta Isaia: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. 3 Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, 4 si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5 Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6 Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico 7 e predicava: «Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali. 8 Io vi ho battezzati con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo».
(I testi biblici a cui facciamo riferimento sono tratti dalla Bibbia di Gerusalemme e riproducono la versione della Bibbia a cura della Conferenza Episcopale Italiana, anno 1971).
Inizio, in greco “arché”, in latino “principium”. Per Marco l’inizio del Vangelo è un termine che non ha solo valore cronologico, ma teologico. Il Vangelo, di cui egli si accinge a scrivere, non è solo l’inizio della storia di Gesù ma il principio di tutto.
Tornano le parole del prologo della prima Enciclica di Papa Benedetto Deus Caritas est: “All’inizio della vita cristiana non c’è una grande idea o una decisione etica ma un avvenimento, un incontro con Gesù Cristo”. Il “principio”, cioè il cuore, il centro, il motore della vita cristiana è il Vangelo. Ancora Papa Benedetto, commemorando i quaranta anni della Dei Verbum, diceva: “La Chiesa non vive di se stessa ma del Vangelo e dal Vangelo sempre trae orientamento per il suo cammino. È infatti la Parola di Dio che, per l’azione dello Spirito Santo, guida i credenti verso la pienezza della verità (cfr. Gv 16,13)”.
Inizio dice pure che il Vangelo non si è manifestato come una realtà totalmente preconfezionata ma ha avuto un principio, uno sviluppo, e continua a crescere sotto l’impulso dello Spirito. Inizio, poi, non è cancellazione del passato, del Vecchio Testamento, ma è sottolineatura della novità costituita da Gesù di Nazareth che compie le promesse dei profeti. Infatti Marco cita subito Isaia.
Vangelo: Non è solo la Buona Notizia annunciata da Gesù, ma è anche quella che la Chiesa vive, elabora e propone. Come Paolo dirà il mio Vangelo, così Marco propone il proprio, che è sempre l’unico Vangelo di Gesù, ma col collaudo personale di Marco. Ogni cristiano attualizza l’unico Vangelo. I santi, in modo peculiare, hanno riannunciato in modo personalissimo il Vangelo del Signore. È stato scritto che Francesco d’Assisi è una Parola nuova.
Gesù Cristo, Figlio di Dio: Marco colloca i sedici capitoli del suo Vangelo tra due professioni di fede: questa, che è dello stesso evangelista e della sua chiesa, e quella del centurione, figura del catecumeno ai piedi della croce (Mc 15,39). Per l’evangelista l’affermazione Figlio di Dio non è mai letta alla luce della gloria e della potenza ma sempre alla luce dell’impotenza e della debolezza. Questo rimane il messaggio fondamentale di Marco.
Il brano evangelico ascoltato evoca la voce, il deserto, il cammino: sono i tre ritmi che conducono il discepolo ad incontrare il suo Signore.
1. LA VOCE
Voce, non Parola. Come Giovanni il Battezzatore, ogni discepolo sa di non essere la Parola. L’unica Parola che salva è Gesù.
Importanza della voce. Troviamo sovente nelle Sacre Scritture riferimento alla voce. Anzitutto alla voce del Signore: “Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce?”(Es 5,2); “Se tu obbedirai fedelmente alla voce del Signore tuo Dio…” (Dt 28,1); “Ma se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio…” (Dt 28,15). I Salmi indicano con frequenza la voce dell’orante: “Ascolta, Signore, la mia voce” (Sal 26,7). Nel Nuovo Testamento c’è un episodio particolare che dice l’importanza della voce umana per percepire il messaggio che da quella voce giunge: la visita di Maria ad Elisabetta. “Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo” (Lc 1,44). Basta la voce di Maria perché il Battista danzi di gioia nel grembo di sua madre.
La voce non è solo mezzo, è già contenuto. Diverse voci nella nostra vita: la voce dell’amico, del datore di lavoro, del maestro; una voce autorevole o autoritaria… Quali voci vorrei ascoltare nelle mie giornate? Com’è la mia voce? Come sarà stata la voce del salmista, del Battista, di Maria? Non si può parlare di Vangelo con qualunque voce. Bando a tutti gli artifici. La voce del Battista o di Maria non era una recita, una finzione… È il cuore che fa germogliare quella voce. Ci sono voci promettenti, pacifiche, confortanti; ci sono voci aggressive, dure, arroganti; ci sono voci che allontanano e voci che avvicinano, voci che creano ponti e altre che costruiscono muri.
2. IL CAMMINO
“Come è scritto nel profeta Isaia: Ecco io mando innanzi a te il mio messaggero a prepararti la strada, il cammino…” (cfr. Mc 1,2). La figura del “cammino”, è fortemente esplicativa della vita del discepolo. Egli è, per natura, un itinerante, un pellegrino. Negli Atti degli apostoli la fede cristiana è detta “la via” (16,17). Gesù dice di sé stesso che egli è la via (Gv 14,6). Come Gesù – in modo analogo – il suo discepolo non è tanto colui che apre una via, ma che si fa via.
Gesù, via al Padre. Il Battista anticipa nel proprio vissuto quello che Gesù completerà: come Giovanni è via al Messia, così il Messia è via al Padre. Non dimentichiamo mai che il codice interpretativo fondamentale per comprendere chi è Gesù è il suo essere sempre “per il Padre”. Gesù di Nazareth è l’unico caso storico di un uomo, veramente uomo, che sia stato permanentemente unito al Padre.
Il discepolo, via a Gesù. Come Gesù è via al Padre, poiché vive per il Padre, così il cristiano è via a Gesù poiché vive per Gesù. Il discepolo non è mai approdo ma via al Signore. Anche la Chiesa non può mai essere ecclesiocentrica ma cristocentrica. Mai autoreferenziale, ma sempre riferita al Signore. La via guida, orienta e scompare quando ha compiuto il suo servizio. Percorsa la strada non ci si guarda indietro; i passi compiuti restano alle spalle e noi proseguiamo. La strada non è la meta ma ne contiene un germe. Altro è la strada che porta a Gerusalemme, a Roma sulle tombe degli apostoli, ad Assisi, a Santiago di Compostela, e altro è la strada verso l’agriturismo. Per questo il discepolo è segno poiché nel segno è già contenuto un frammento della realtà. Il cristiano è segno di speranza non solo perché la indica ma anche perché la partecipa; è segno di misericordia non solo perché la annuncia a parole ma perché la fa pregustare.
3. IL DESERTO
Il deserto, habitat del discepolo. Appare contraddittoria l’affermazione della Scrittura secondo cui Giovanni grida nel deserto. A chi? Per chi? Il deserto è simile al mare. Il deserto vive ed è immagine dell’infinito. Chi vive nel deserto abita il silenzio, la solitudine, perché si lascia visitare dal Mistero. Il deserto purifica e libera dalle maschere, dai personaggi, dai ruoli che ci appesantiscono; restituisce verità alla nostra persona. Il deserto abbatte le nostre idolatrie (danaro, potere, successo, cupidigie, narcisismi…). Il deserto ci libera dai nostri accomodamenti, dai luoghi comuni, dalla nostra sete di consensi. Ciò accade perché il deserto radica nell’essenziale, ci pone di fronte alla Verità che rende liberi e irriducibili innanzi a tutti gli inganni. Nel deserto Giovanni Battista pone le condizioni per la grazia del martirio.
Il deserto, sorgente di missionarietà. Nel deserto Giovanni matura la forza che lo renderà instancabile annunciatore del Regno, difensore della verità, distaccato servitore del Messia. Egli, che viene dal deserto, persuade i suoi ascoltatori ad entrare nel deserto del cuore, come luogo dell’incontro con sé stessi e dell’incontro con Dio. Un deserto abitato.
Dalla vita al Vangelo, dal Vangelo alla vita
Le mie relazioni, l’ambiente in cui vivo, le circostanze, gli incontri non sono materiale senza forma, non sono solo fatti, sono eventi. La Parola di Dio illumina e interpreta la realtà. Rivedo in una situazione concreta recente come vita e Vangelo si sono intrecciate e illuminate a vicenda.
SECONDA LECTIO
“Tu sei mio Figlio, il prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,9-11)
La fede è dono e compito. E se la nostra vocazione fosse “diventare un ponte”?
9 In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. 10 E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. 11 E si sentì una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto».
Il Battesimo nel Giordano è per Marco – che non narra, a differenza degli altri Sinottici, l’infanzia di Gesù – la ripresentazione del mistero dell’Incarnazione, come mistero sempre in atto nella vita di Gesù, vero uomo e vero Dio. Questa dinamica ci concerne in riferimento al nostro Battesimo, ove ci è donata la virtù della fede e il suo dinamismo. Siamo credenti e lo diventiamo continuamente.
Nel Battesimo del Giordano il Padre manifesta agli uomini, per la prima volta, la divinità del Figlio. In modo ancor più splendente lo farà sul Tabor. Quel Gesù, non riconosciuto dalla folla immersa nelle acque del fiume, è veramente Figlio unigenito, prediletto, del Padre: vero uomo e vero Dio. La vita di Gesù vero uomo (affamato, assetato, solo, impaurito, angosciato) e vero Dio sempre unito al Padre, racconta, in certo modo, la nostra stessa esistenza credente di uomini abitati da tutta la pesantezza della nostra umanità e, al tempo stesso, di figli adottivi di Dio. Il Battesimo è per noi l’inizio del nostro combattimento della fede.
Rileviamo per la “lectio divina” tre passaggi:
1. Rivolto al cielo 2. Immerso nelle acque 3. Mediatore tra le due sponde
1. RIVOLTO AL CIELO
Il Vangelo di Marco dice che Gesù, uscendo dalle acque del fiume, “vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto». Il testo originale: “il cielo si squarciò, si lacerò”. L’uomo Gesù è confermato nella sua figliolanza divina, tramite i cieli aperti, lo Spirito Santo che scende su di Lui, la voce del Padre che lo indica come il prediletto. Da una parte l’uomo Gesù è proteso al Padre, dall’altra il cielo si apre: ma non è la natura umana di Gesù che ottiene quell’effetto. Il cielo lacerato, lo Spirito che scende, la voce che lo chiama “prediletto” non sono il frutto della sua tensione religiosa, ma iniziativa gratuita del Padre.
Sta qui la differenza tra il battesimo nelle acque del Giordano e il nuovo battesimo che sarà istituito da Gesù. Nel nostro battesimo, nell’acqua e nel nome delle divine Persone, è accaduto un movimento analogo a quello che avviene in Gesù dopo il battesimo di Giovanni Battista. La folla del Giordano compie un movimento penitenziale che va dal basso verso l’alto in spirito di conversione… Gesù compie questo stesso gesto, ma in Lui c’è un’assoluta novità: l’intimità col Padre, ove accade un movimento opposto, dall’alto verso il basso. Gesù è Figlio del Padre, perché generato da Lui.
Così noi siamo figli non perché lo abbiamo meritato, ma per puro dono. La vita divina ci è partecipata. Egli è il prediletto. In modo analogo ogni cristiano lo è. Nel nostro Battesimo siamo diventati figli nell’unico Figlio, Gesù. In Lui, nella sua esperienza di Figlio del Padre che è unica, diventa praticabile la nostra esperienza di creature nuove, che vivono in modo non ripetitivo il proprio discepolato. Il Padre non può che amare il Figlio, il prediletto e, in noi, ama la Sua immagine. Per opera dello Spirito Santo siamo formati a immagine del Figlio: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”(Gal 2,20). La vita cristiana non è altro che rivivere l’intima unione del Figlio col Padre per mezzo dello Spirito.
2. IMMERSO NELLE ACQUE
Il Vangelo di Marco inizia col racconto del Battesimo nel Giordano. Per Marco l’immersione nelle acque, in incognito tra la folla dei peccatori, equivale all’Incarnazione ove egli condivide in tutto tranne che nel peccato la condizione umana (prece IV). Nel Giordano Gesù si confonde tra i peccatori. Teresa di Lisieux amava ripetere: “Desidero sedere alla mensa dei peccatori”. Gesù Cristo salva perché condivide. Per Marco l’immersione di Gesù nelle acque del Giordano annuncia che il Verbo eterno si è fatto carne. Per la nostra vita meditiamo su un antico principio, così formulato da Tertulliano: “Caro cardo salutis”: la carne è il cardine della salvezza
Alcune note
Solo la nostra corporeità consente un contatto diretto con il Risorto tramite i Sacramenti. I sette segni della nostra salvezza accadono nella carne. La nostra corporeità è luogo di combattimento e di salvezza. “Gli impulsi, le passioni, gli umori e i malumori imperniati sull’egoismo, anche questa carne è il cardine della salvezza. Senza questo cardine non c’è conversione”. (K. Rahner – A. Görres, Il corpo nel piano della redenzione, Ed. Queriniana, p. 49).
La nostra corporeità è anche memoria delle nostre povertà. Ci aiuta a evitare deliri di onnipotenza: “Fame e sete, necessità e desideri ci ricordano ad ogni istante che non siamo Dio. La soggezione alle forze fisiche, il freddo e il caldo, il peso e l’urto, i bacilli, le vespe, il dolore e la malattia, la nascita e la morte, ci provano che siamo dei sottomessi e dei dipendenti. Per quanto nobili ci stimiamo, il corpo ci indica l’ultima fila della platea e l’angolo dei mendicanti” (Ivi, p. 50).
La corporeità comporta valori impediti agli angeli. Il vissuto virtuoso d’un uomo passa attraverso un affrontamento che il puro spirito non conosce: pazienza, fedeltà, fermezza, dolcezza, castità, povertà, obbedienza sono possibili soltanto nella vulnerabilità del corporeo. Il corpo è un maestro da ascoltare. È mediatore tra noi e gli altri – come potremmo vederci, conoscerci, parlarci se non fossimo un corpo? – tra noi e il mondo, tra noi e Dio, ma ancor più il nostro corpo è mediatore con noi stessi: ci dice lo stress, l’ansia, la gioia, il dolore e il piacere. È fondamentale per il discepolo di Gesù ascoltare il proprio corpo. S. Ignazio di Loyola, maestro di formazione globale della persona, insiste nell’esercizio della ricerca di Dio in tutte le cose, attraverso la “meditazione sui cinque sensi”.
3. MEDIATORE TRA DIVERSE SPONDE
Il mistero dell’Incarnazione costituisce Gesù unico mediatore tra l’uomo e il Padre e tra gli uomini. Anche il nostro Battesimo, e quindi la nostra esistenza cristiana, contiene entrambe queste istanze.
Essere un ponte. Gesù è il vero pontefice. Pontem faciens. È anche la vocazione cristiana, in particolare la consacrazione secolare. Erri de Luca, dopo aver assistito alla distruzione del famoso ponte di Mostar – simbolo della serena coabitazione tra cristiani e mussulmani in Bosnia – ha scritto che il ponte è la più bella struttura architettonica.
Il ponte unisce, congiunge e crea la comunicazione tra sponde e realtà diverse. Gesù è il ponte tra Dio e l’uomo, come tra uomo e uomo, tra razze, culture e religioni. Egli abbatte il muro di separazione. Nella politica dei “muri” (Palestina e USA) la secolarità consacrata costruisce ponti.
Essere “ponte” tra tutte le diversità. Ponte tra gli uomini e Dio e viceversa, ponte in famiglia, nel mondo del lavoro, della vita sociale, politica, culturale, ecclesiale.
È difficile farci ponte. Per almeno tre ragioni.
Il ponte è fondato e saldo su entrambe le arcate, quella della fede in Dio e della fede nell’uomo, quella della reciprocità tra tutti i diversi, che esige una non facile capacità di ascolto, empatia e dialogo, senza parzialità.
Il ponte esiste per camminarvi sopra, avanti e indietro. Farci ponte significa pagare di persona, autorizzare l’altro a servirsi di noi, senza pretendere un grazie.
Il ponte è discreto, quasi anonimo; sovente non ci si accorge, specie in auto, di viaggiarvi sopra. Il ponte sta lì. Solo perché vi si passi sopra. I nostri protagonismi non ci permettono di essere ponte. Se uno vuol apparire a tutti i livelli (sociale, politico, ecclesiale) non consente comunicazione tra gli altri, non serve la comunione. Solo il chicco di grano che cadendo per terra muore dà la vita (cfr. Gv 12,24). Queste possono essere alcune difficoltà ad essere ponte. Eppure la vocazione secolare è quella di essere ponte.
Dalla vita al Vangelo, dal Vangelo alla vita
Condividiamo con tutti la pesantezza della nostra umanità e, al tempo stesso, la sua bellezza, cioè la realtà di figli adottivi del Padre. Le fragilità e i limiti che sto riconoscendo in questo tempo della mia vita, mi possono aprire a vivere relazioni liberanti, profonde, vere, …
TERZA LECTIO
“Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,14-20)
Fede e conversione. Il Regno e i primi discepoli.
14 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo». 16 Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 17 Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». 18 E subito, lasciate le reti, lo seguirono. 19 Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. 20 Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.
Introduzione.
Spieghiamo l’espressione “Regno di Dio”, che è centrale nel racconto di Marco. Gesù di Nazareth è l’avvenimento, atteso e nuovo, in cui si compiono le promesse di Dio. In Gesù gli uomini sono chiamati a prendere parte alla vita divina. Il Regno di Dio è la persona stessa di Gesù, nel quale si rivela il mistero invisibile del Padre e nel quale tutti gli uomini sono chiamati alla divinizzazione.
La venuta del Regno in ogni uomo accade, secondo l’evangelista Marco, tramite tre passaggi: 1. Convertirsi credendo al Vangelo 2. Seguire Gesù 3. Diventare pescatori di uomini
1. “CONVERTITEVI E CREDETE AL VANGELO”
Cosa significa conversione. In occasione della GMG del 2000, a Roma, è stato donato a tutti i giovani il Vangelo di Marco in varie lingue. Il brano del Vangelo ascoltato in questa lectio è così tradotto: “Il tempo della salvezza è venuto: il Regno di Dio è vicino. Cambiate vita e credete in questo lieto messaggio”.
L’espressione cambiate vita è solitamente interpretata nel senso di diventare più buoni. La conversione sarebbe un mutamento di costumi. Le parole greche usate dalla Bibbia per indicare la conversione sono due: “metànoia” e “epistrofé”, il cui significato, nelle lingue moderne, è cambiamento di mente, cambiamento di strada. In altri termini, questi due vocaboli affermano la necessità di cambiare l’impostazione della propria vita, di mutarne l’asse portante. Non si tratta perciò solo di assumere costumi, comportamenti nuovi, vale a dire un mutamento nella condotta morale, ma di dare interiormente un nuovo orientamento alla propria esistenza.
La conversione riguarda anzitutto la nostra fede. Il Vangelo infatti dice convertitevi e credete al Vangelo. Quella e non è una specie di aggiunta, ma la spiegazione del contenuto della conversione: convertitevi, cambiate vita, cioè credete al Vangelo. Scrive W. Kasper: “Conversione è la formulazione negativa di ciò che Gesù dice positivamente con il termine credere” (Walter Kasper, Introduzione alla fede, Ed. Queriniana, p. 61).
Credere significa:
Riconoscere l’assoluta priorità del Signore nella nostra esistenza, la sua affidabilità. La persona di fede non è chi si ingegna nel fare cose buone, ma chi apre il proprio cuore in totale disponibilità al Signore. Il credente si converte perché risponde all’avvenimento che si è manifestato in Gesù come gioiosa notizia. Convertirsi è cambiare perché si tratta di consegnarsi a questo avvenimento che capovolge il proprio modo di pensare e agire.
Accogliere il Regno di Dio in sé. La fede è il modo preciso, personalizzato col quale il Regno di Dio abita, avvolge, occupa la persona. Fede e Regno di Dio sono i due versanti di un’unica realtà. Il Regno di Dio è in me se mi consegno, con una resa incondizionata, al Signore. Egli diventa il mio baricentro.
Entrare in un dinamismo faticoso, poiché per nessuno è facile sottrarsi alle istanze del proprio io, dell’immagine, degli appoggi sicuri ai quali la maggior parte degli uomini affida la propria esistenza. Per questo la fede è progressiva.
Esercitare al massimo tutte le proprie facoltà, non abdicare alla propria intelligenza, volontà, libertà, fantasia, creatività, ma porre tutte le risorse della persona al servizio della propria maturità di fede e quindi del Regno di Dio. La vita dei veri discepoli di Gesù testimonia che la persona umana, chiamata alla fede, è chiamata alla pienezza della propria umanità. Questo è un aspetto essenziale della consacrazione secolare nel mondo.
2. “SEGUITEMI”
Precisiamo alcuni contenuti di questa espressione.
Gesù precede, sta davanti, indica la strada. Lo dicono bene l’originale greco e il latino. Essere discepoli credenti significa tenere lo sguardo del cuore fisso su un altro e non distoglierlo mai. Il Maestro è Lui, e solo Lui. Tutte le presenze educative, gli accompagnamenti, gli amici della nostra vita, non possono che riportarci a Lui. Una volta di più comprendiamo che una Chiesa discepola è Cristocentrica e non Ecclesiocentrica.
Si tratta di seguire la Sua persona, non un’immagine che di Lui ci siamo fatti. Seguire Lui significa affidarci a un’avventura rischiosa. Egli, per l’evangelista Marco, è anzitutto il Crocifisso. Vedremo come di fronte a Lui inchiodato alla croce presenta il vero credente, il centurione pagano: “Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39).
È Lui che chiama, non siamo noi che decidiamo. I rabbini contemporanei di Gesù si comportavano diversamente. Non cercavano discepoli – ancor più non li cercavano in queste circostanze, mentre gettavano le reti in mare – ma i giovani ebrei si candidavano presentandosi al rabbino da loro scelto. Con Gesù si è scelti, e scelti mentre si conduce la più ordinaria esistenza. Non si danno autocandidature.
Seguirlo ha anche un carattere di urgenza. “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. La sequela è attuazione d’un tempo compiuto. La chiamata non può essere trascurata o rinviata.
Seguire comporta un lasciare per entrare in una nuova realtà. Il punto non è semplicemente lasciare le reti, le barche e la famiglia, ma tutto ciò di cui queste realtà possono essere simbolo. Si tratta di lasciare il sicuro per l’insicuro, la stabilità per l’itineranza. Soprattutto seguire Gesù di Nazareth vuol dire lasciare tutte le immagini di Dio che ci portiamo dentro e che sovente nascono dai nostri bisogni o dalle nostre paure, per conoscere in Gesù il volto vero e nuovo del suo e nostro Dio.
Seguire non è imparare. Mentre i comuni rabbini trasmettono una dottrina ai loro discepoli perché la insegnino ad altri, con Gesù non è cosi. Non è in primo piano una dottrina da imparare e poi da insegnare, ma una persona con la quale rimanere, per entrare con Lui in un progetto nuovo di esistenza. Seguire Gesù significa diventare intimi a Lui e testimoniare questa nostra intimità tramite la nostra vita.
3. “VI FARÒ DIVENTARE PESCATORI DI UOMINI”
L’espressione in prima persona “vi farò diventare…” indica che non solo il Signore chiama a seguirlo, ma è ancora Lui che opera durante la sequela per raggiungerne l’obiettivo: vi farò diventare. Si diventa missionari perché Lui ci rende tali.
Il verbo “vi farò diventare” contiene l’idea d’una certa opera personalizzata e diretta, come quella dell’artigiano che dalla creta fa uscire un vaso o dal legno fa emergere col suo scalpello un volto. C’è un’idea di cura, di accudimento. Quasi un dire: “Ci penserò io a cambiarvi. Non preoccupatevi. A voi è chiesto di consegnarvi a me e collaborare con me, al resto provvedo io”.
L’espressione usata da Gesù contiene anche un’idea di progressività. Quel diventare indica un percorso lento, paziente: non ci si improvvisa né discepoli né apostoli.
La metafora del pescatore è dedotta dal mestiere dei quattro chiamati: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Questo fatto ci consente una riflessione sul metodo di Gesù circa le chiamate che Egli rivolge. La chiamata è indubbiamente sua e consiste nel seguirlo, rimanendo con Lui, per lasciarsi da Lui plasmare e diventare apostoli. Ma Egli ci plasma e ci fa diventare apostoli tenendo conto della nostra persona (indole, attitudini, storia). Se Gesù avesse chiamato dei guardiani di greggi forse avrebbe detto “Vi farò diventare guardiani o pastori di uomini”.
Ogni forma di vita cristiana si manifesta con una propria modalità apostolica. Non c’è un solo modo di essere apostoli, né esiste una sola modalità della Chiesa per essere presente nel mondo. Il laico, il religioso, il prete hanno modi diversi di essere apostoli. La Missionaria della Regalità di Cristo vive in un modo peculiare la sua consacrazione e la sua missione. L’evangelizzazione esige sempre inculturazione e questa è una dimensione essenziale della consacrazione secolare nel mondo. La terra, la società, l’ambiente, ove i cristiani vivono e operano, domandano uno stile differenziato di presenza e di missionarietà secolari, nella fedeltà al tempo e allo spazio. Il destinatario dell’Evangelo non è un optional aggiuntivo ma è parte essenziale dell’annuncio.
Per questo esige ascolto, conoscenza, condivisione. Altro è la missionarietà sul posto di lavoro, altro è quella in famiglia. La missione che la Chiesa vive oggi in Algeria è ben diversa da quella che vive in Polonia, in Africa, in Pakistan o in America Latina. La missionarietà di S. Teresa di Gesù Bambino, claustrata a Lisieux, è diversa da quella di S. Francesco Saverio, apostolo in Estremo Oriente. Come quella della Beata Teresa di Calcutta, tra i poveri del’India, è diversa da quella dei Beati Piergiorgio Frassati e Ozanam, apostoli in università, nelle opere sociali e tra i poveri d’Europa. La missionarietà di Armida Barelli e di Giorgio La Pira è anche diversa da quella di Madeleine Delbrêl.
Dalla vita al Vangelo, dal Vangelo alla vita
Se manca lo stupore qualcosa nella nostra vita si è spento. Riconosco oggi persone ed esperienze che mi aprono allo stupore del Vangelo, alla sua novità, …
QUARTA LECTIO
“Entrato di sabato nella sinagoga si mise ad insegnare” (Mc 1,21-28)
Fede e autorevolezza della Parola
21 Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare. 22 Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi. 23 Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: 24 «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il Santo di Dio». 25 E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell’uomo». 26 E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. 27 Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!». 28 La sua fama si diffuse subito dovunque nei dintorni della Galilea.
La pagina di Marco ci pone innanzi alla persona di Gesù di Nazareth, maestro autorevole e guaritore.
1. INSEGNA
“… di sabato, entrato nella sinagoga, si mise ad insegnare”
Lo shabbat, il sabato, è il giorno del Signore. Al versetto 32 di questo primo capitolo di Marco si legge che “dopo il tramonto del sole gli portarono tutti i malati e gli indemoniati”. Dopo il “tramonto”, cioè quando il giorno del Signore, giorno del riposo, è finito.
Gesù assume nei confronti del sabato un atteggiamento non rigido: permette ai discepoli di raccogliere le spighe di grano in giorno di sabato (Mc 2,23) e guarisce un uomo dalla mano paralizzata (Mc 3,2). E dice: “Il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato. Perciò il Figlio dell’uomo è Signore anche del sabato” (Mc. 2, 27-28).
Ma Gesù non è nemico del sabato; gli restituisce il suo vero significato. Anzi lo osserva e si attiene alle vere regole sabbatiche. Come ogni pio ebreo va alla sinagoga (come un cattolico osservante partecipa all’Eucaristia domenicale..) e, com’è nel diritto d’ogni ebreo adulto, egli commenta la Scrittura, offrendo all’assemblea un suo commento. Ricordiamo che i primi cristiani, ebrei convertiti, osservavano il sabato e “il giorno dopo il sabato” celebravano la memoria della Pasqua del Signore.
Tra i credenti ebrei è diritto d’ogni fedele adulto commentare le Scritture, non per un mandato speciale esterno, ma in ragione della propria fede espressa col fatto stesso di frequentare la sinagoga. La fede non può essere tenuta per noi stessi ma, come fa Gesù nella sinagoga così noi, all’interno delle nostre comunità, siamo per vocazione degli annunciatori: catechisti, insegnanti di religione, animatori d’un gruppo. Anche nel nostro vivere ordinario, non possiamo non annunciare ad altri, con la nostra vita, Colui che abbiamo incontrato.
“Erano stupiti del suo insegnamento”
Il verbo greco usato da Marco, exples-santo, dice che per lo stupore erano scossi di gioia. Lo stupore è una delle esperienze fondamentali della vita. Il vocabolo francese per dire stupore è étonnement. All’interno di questo vocabolo ce n’è un altro, tonnère, che vuol dite “tuono”. Lo stupore è uno scossone, un tuono. Se manca lo stupore qualcosa si è spento.
Non conosciamo il contenuto dell’insegnamento di Gesù. Ne vediamo soltanto l’effetto nello stupore dell’uditorio. Accade anche oggi che i volti degli ascoltatori dicano la qualità dell’annuncio. Volti annoiati o volti luminosi? La mia vita cristiana conosce lo stupore? So che cosa lo fa germogliare e che cosa lo spegne? Ci sono persone ed esperienze che mi restituiscono lo stupore del Vangelo? La mia comunità è luogo ove si riaccende lo stupore della fede in Gesù?
2. CON AUTORITÀ
“Ammaestrava come uno che ha autorità, e non come gli scribi”
Il vocabolo greco per dire autorità è exousia, che significa “potere, potestà”. In latino autorità viene dal verbo augere, far crescere. L’autorità è genitoriale, feconda, promozionale.
Alcune qualità dell’autorità di Gesù secondo Marco:
Personale. Non è libresca, come era invece quella degli scribi, i quali ripetono parole d’altri. Anche la Parola di Dio, se è soltanto ripetuta, non assimilata, non è autorevole. Non si tratta mai di ribadire il già detto ma di far sgorgare dalla Parola l’intima linfa che la percorre, tramite il nostro travaglio personale. La personalizzazione dell’insegnamento di Gesù è unica poiché Egli non dice parole ma Egli stesso è la Parola.
Sintonica. Ci sono parole che raggiungono una nostra attesa nascosta e la ridestano. Parole che non osavamo neanche sperare ma che, all’udirle, riconosciamo come nostre. Si tratta di misteriose affinità elettive tra Gesù, icona perfetta del Padre, e noi, piccole icone divine.
Propositiva. Gesù non impone, ma propone. È discreto. La sua è una vera autorità di servizio e non di potere. Egli sta tra di noi come colui che serve; Egli sta alla porta e bussa. In Gesù si percepisce la forza della verità e non la verità della forza.
Liberatrice. Gesù libera l’uomo dal male che lo affligge, restituendolo alla propria dignità. È il significato dell’invocazione “liberaci dal male”.
Sacramentale. Questo aspetto dell’autorità di Gesù è forse sintesi di tutti gli altri. Egli è autorevole perché la sua parola umana è segno e strumento della sua natura divina. Anche il cristiano è tanto più autorevole quanto più egli scompare affinché emerga l’Altro al quale è unito.
Esistono nella mia vita persone in cui riconosco una autorità che mi rinvia all’unica autorità del Signore?
3. GUARISCE
“Nella loro sinagoga si trovava un uomo posseduto da uno spirito immondo…”
L’uomo “posseduto” può essere simbolo d’ogni uomo abitato da patologie. Scrive un commentatore: “Posseduto da spirito immondo, ovvero sofferente di disturbi psichici o afflitto da mali che si manifestavano in modo bizzarro, violento, anomalo, e per questo attribuiti a spiriti maligni…” (Dal commento della comunità di Bose, in Rivista del Clero). Qualunque sia il genere di patologia, quest’uomo che frequenta la sinagoga, luogo santo, coltiva una forte componente religiosa. Conosce Gesù e lo confessa in modo preciso e ortodosso: “Tu sei il Santo di Dio”.
Questo episodio, come altri nel Vangelo, ci pone a contatto con la nostra condizione di uomini feriti e frantumati, impotenti innanzi al desiderio di unità e pace con noi stessi, cogli altri, con Dio. È Gesù che ci libera da queste catene e ci consente di portare a compimento il desiderio che ci abita.
“Taci, esci da quell’uomo”.
Ed è immediatamente obbedito. La Parola di Cristo è efficace, trasformante. Questa stessa parola è pronunciata dal Signore su ciascuno di noi. La folla esulta di meraviglia per quanto vede ma non fa una professione di fede. Il demone invece riconosce e confessa chi è Gesù, il Santo di Dio. Per l’evangelista Marco il demone è “teologo”, riconosce il Signore.
È una “teologia negativa” poiché acutamente vede la presenza di Dio e la combatte, o vi si sottomette suo malgrado. A questa lettura “ideologica” di Gesù si oppone, per l’evangelista Marco, la reazione entusiasta della folla, che non compie ancora un atto di fede in Gesù ma, con la sua disponibilità, vi si sta incamminando.
Dalla vita al Vangelo, dal Vangelo alla vita
Essere Missionari si alimenta di una conversione continua al Vangelo lungo le diverse età della vita. Rileggo passi di conversione concreti nelle esperienze quotidiane di condivisione che stanno segnando il mio cammino oggi…
QUINTA LECTIO
“Se vuoi, puoi guarirmi” (Mc 1,40-45)
Fede e miracolo
40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!» 41 Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!» 42 Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. 43 E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: 44 «Guarda di non dir niente a nessuno, ma va’, presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro». 45 Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.
La guarigione del lebbroso costituisce un segno messianico. Attesta cioè che il Regno di Dio è operante in mezzo agli uomini. E porta con sé novità sconvolgenti. Ne segnaliamo tre:
La lebbra. Malattia fortemente simbolica per la deturpazione che provoca all’organismo umano, è congiunta all’impurità, è indicativa di uno stato di peccato. Ancora oggi esistono culture ove il lebbroso è, per certi aspetti, un maledetto. La lebbra è considerata nel mondo ebraico sotto l’aspetto religioso e non sotto l’aspetto medico-sanitario.
L’intoccabile toccato. Poiché maledetto, il lebbroso è messo al bando. Dice il libro del Levitico (13,46): “… se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento”. La segregazione consegue all’impurità. Se il lebbroso si muoveva fuori dai confini ove era costretto, doveva camminare portando legati alle caviglie dei campanelli che, suonando, avvertissero la gente della sua prossimità affinché potessero allontanarsi. Gesù di Nazareth tocca un intoccabile. Con questo gesto egli afferma che nel Regno di Dio cadono le barriere tra puro ed impuro.
L’esortazione al silenzio. Più volte Gesù chiede di non divulgare gli eventi straordinari, i miracoli. Essi non sono “eccezioni alla regola” ma annuncio, poiché il miracolo rivela la signoria di Dio su ogni realtà Il miracolo non salva. Solo la fede salva. La ricerca del miracolo non educa alla fede. Il cristiano crede ai miracoli ma non conta su di essi per radicare la propria fede. La fede nasce dall’ascolto della Parola.
1. “LO VOGLIO, GUARISCI”
In queste parole chiare e dirette è contenuto un annuncio fondamentale. Gesù Cristo rivela che Dio non è amico della malattia, del dolore e delle segregazioni. Dio ha creato l’uomo non per la sofferenza ma per la gioia. Malattia e sofferenza sono frutto, secondo il racconto biblico, d’un disordine che è frutto del peccato e non del cuore amoroso del Signore.
È impegno di tutti i cristiani combattere la malattia e le sue cause Gesù invia i discepoli dando loro queste consegne: “Predicate il Vangelo, guarite gli infermi”. Per questo in tutti i Paesi di missione, sempre, accanto alla chiesa, sorge l’ambulatorio, l’ospedale, il dispensario. Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi ha scritto che “la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione”. Promuovere l’uomo significa garantire la sua dignità. Garantire alle persone le condizioni sanitarie, igieniche, nutritive cui hanno diritto è parte dell’annuncio evangelico.
La storia della comunità cristiana attesta l’opera dei santi a favore dei sofferenti. I cristiani sono spinti, prima che da una ragione sociale, filantropica, da una obbedienza allo stile e alla parola di Gesù. I ricercatori scientifici, gli operatori sanitari, anche se nel loro lavoro non ci pensano, di fatto stanno obbedendo al Vangelo nel loro impegno per curare gli infermi. Ricordo la gioia d’una religiosa infermiera, a servizio d’una comunità per malati di Aids, nel dire che, grazie alle medicine, i suoi malati potevano ormai vivere lungamente. Conosciamo, in questo settore, la grave ingiustizia di cui sono vittima alcuni Paesi, specie in Africa, dove questa malattia è molto diffusa, ma l’alto costo dei medicinali rende impossibile la salvezza di tante vite umane.
2. LA COMPASSIONE
Il sentimento di Gesù L’emozione del Signore è espressa col verbo greco “splankisteis” che significa “avere viscere di bontà” e anche “adirarsi”. Qualche traduttore preferisce questa seconda traduzione per dire come Gesù, insieme alla compassione per il lebbroso, provi indignazione nei confronti dello stato di segregazione coatta in cui il lebbroso è costretto a vivere.
Le ragioni dell’emarginazione È un fenomeno che si manifesta allorché un determinato sistema non può trarre profitto da qualcuno dei suoi membri. Se un dispositivo non funziona a vantaggio del sistema, lo si elimina. Per natura sua il sistema tende a integrare tutti quelli che gli servono, ma elimina tutti quelli che gli creano difficoltà. Leggiamo da un commentatore: “La logica fondamentale del sistema è quella della sua autoconservazione e possibilmente del suo sviluppo. Nasce allora l’infinita schiera degli emarginati che, come il lebbroso del Vangelo, sono costretti a vivere ai margini della società: uomini che sono dei rottami e delle larve; profeti che gridano al vento; esseri che la società ha messo nella pattumiera dei rifiuti. Non è sempre conveniente uccidere un uomo fisicamente quando lo si può uccidere socialmente e moralmente” (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Marco, EDB, p. 69).
Questi criteri guidano il sistema economico, sociale, politico. Possono anche guidare il sistema scolastico (“Insegno soltanto per gli intelligenti – diceva un docente – e non mi curo di quelli che fanno più difficoltà, perché io voglio svolgere il programma”). Anche la comunità cristiana è stata guidata da simili criteri quando ha messo al margine figure ritenute scomode, magari poi, a distanza, proclamate sante.
La nostra indignazione e la nostra compassione
Chiediamoci se siamo capaci di indignarci innanzi alle ingiustizie, le sopraffazioni, le messe al bando di tutti i tipi. E chiediamoci cos’è la compassione. Significa “patire con”, cioè sentire come l’altro sente. È l’attitudine che oggi è chiamata empatia. È facile patire con chi patisce o invece allontaniamo da noi le situazioni che potrebbero indurci alla compassione? Accade che ci difendiamo da quei contatti che potrebbero farci provare compassione? Non concludiamo subito: “perché siamo egoisti”. Esistono probabilmente anche altre motivazioni da conoscere.
La paura del dolore. Dio non ci ha creati per soffrire ed è proprio della nostra natura fuggire la sofferenza. Non scandalizziamoci del nostro disagio innanzi alla sofferenza nostra e altrui.
L’ignoranza. Sovente rifuggiamo il contatto col malato in nome di precauzioni per la nostra salute che nascono da disinformazione. Il panico innanzi ai malati di Aids è spesso causato solo da ignoranza.
La mancanza di risorse. Il contatto con la malattia non ci è naturale; chiede un certo superamento di sé facendo appello a risorse interiori. In alcuni momenti tutti noi possiamo mancarne, alcuni ne sono particolarmente privi. Succede che qualcuno stia davvero male dopo una visita a un malato in ospedale per aver visto tanta sofferenza. È necessario esercitarsi nel saper reggere. La sofferenza non è lo scopo della vita, va combattuta, ma è parte del vivere di ognuno. Educare i bambini a restare progressivamente a contatto con chi soffre. Non nascondere loro la morte. Esistono adulti che restano eterni immaturi, incapaci di far fronte alle più elementari difficoltà dell’esistenza.
L’incapacità a relazionarsi. Ci si può trovare nella condizione di non sapere come relazionarsi, che cosa dire a un malato grave. Ricevuta notizia d’una persona gravemente inferma, si può rimanere bloccati e, pur desiderandolo, si è impediti nell’andare a fargli visita.
Il rinvio ai nostri limiti. Il malato, come ogni altra persona in disagio, ci mette necessariamente a contatto con parti del nostro vissuto, con le quali noi non siamo riconciliati e che pertanto cerchiamo di sfuggire. Ad esempio, può esserci in noi disagio nei confronti della malattia perché siamo stati noi stessi malati, o qualcuno a noi molto caro lo è stato. Aver di fronte un malato ci rinvia a quello che già abbiamo sofferto. E cerchiamo di sfuggirvi. È legittimo e comprensibile.
Come educarci alla compassione
La compassione è sentimento di Gesù, profondamente umano ma non garantito dalla nostra sensibilità umana. L’ascolto della Parola di Dio, l’Eucaristia, la preghiera sono il nutrimento della nostra compassione. Va invocata, accolta, custodita.
La compassione nasce anche dal conservare uno sguardo vero, e non riduttivo, verso colui soffre. Non ridurre mai il malato al suo solo bisogno. Il malato è una persona, che è malata, ma è anzitutto una persona. Solo guardandolo così nasce in noi la compassione, il saper patire con lui. Facilmente colui che soffre è emarginato, anche da coloro che lo amano, entro i soli confini della sua malattia, dimenticando chi è veramente, con la sua dignità, i suoi affetti, sensibilità, indole, professione, cultura… Non riduciamoci mai a conversare col malato soltanto della sua malattia ma di tutto ciò che lo ha sempre interessato.
La compassione si acquisisce tramite l’esercizio di gesti, parole e sguardi compassionevoli. Si è molto aiutati in questo dall’appartenenza ad una comunità compassionevole, ove giovani e adulti si aiutino reciprocamente nell’acquisire questa virtù umana ed evangelica.
3. “STESE LA MANO, LO TOCCÒ”
Il duplice gesto ha il sapore d’una liturgia. Gesù tocca l’intoccabile, l’impuro e lo rende puro. E lo invia poi, guarito, ai sacerdoti “a testimonianza per loro”, poiché essi sono i custodi della legge che separa il puro dall’impuro, il sacro dal profano, il giusto dal peccatore. Con Gesù cade il muro di separazione (cfr. Ef 2,14), poiché Dio si è fatto, in Gesù, solidale con tutti. Dall’atteggiamento di Gesù siamo indotti ad apprendere:
La prima guarigione è l’incontro. Stendere la mano verso qualcuno, toccarlo, significa riconoscerlo come persona, nella sua concreta condizione, nella sua lebbra. E già tale gesto è terapia e, in certa misura, guarigione. È importante stringere la mano a un infermo, accarezzarlo, mostrargli la nostra vicinanza anche corporea: significa condividere con lui, quasi un desiderio di prendere su di noi il suo male. Non glielo togliamo, ma lo aiutiamo a portarlo.
Non lasciamo solo chi soffre. La vicinanza di Gesù al malato, e la sua indignazione per la segregazione cui era obbligato, sono indicative d’uno stile da assumere verso chi soffre: non lasciarlo solo. Chi è malato, chi è anziano, non produce più, non ha voce e facilmente è dimenticato. Lo dicono spesso quanti sono costretti all’immobilità: “In casa sono tutti gentili, ma sono sempre tanto occupati; non possono aver tempo per me”. Riscoprire l’opera di misericordia visitare gli infermi, sapendo che il malato è depositario d’una particolare presenza del Signore.
Il lebbroso guarito diventa apostolo. “Cominciò a proclamare e a divulgare il fatto”. C’è qui una segnalazione preziosa, valida per ogni tempo e luogo. Il Vangelo è proclamato da chi non conta, da chi è escluso: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato” (1Cor 1,28a). Scrive un autore: “Il Vangelo ci viene sempre testimoniato dai poveri. Noi stessi saremo in grado di testimoniarlo quando saremo in quella stessa condizione, come individui e come comunità. È infatti la croce di Cristo la nostra salvezza”. (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Marco, EDB, p. 69. ) Un cristiano ricco, sicuro di sé, sembra inadatto ad annunciare il Vangelo. Così una Chiesa che si creda vincente, assisa tra i grandi, non pare idonea a proclamare la gioiosa notizia della salvezza portata da Gesù, l’amico di tutti peccatori e di tutti i poveri.
Dalla vita al Vangelo, dal Vangelo alla vita
Credere non significa non piangere. Non mi scandalizzo di avere paura di confrontarmi con la sofferenza mia e degli altri. Come il lebbroso anche io ho bisogno di essere toccata e guarita; mi metto davanti al Signore e riconosco le mie malattie e le mie ferite…
SESTA LECTIO
“Vista la loro fede, disse al paralitico: ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mc 2,1-12)
Fede e perdono dei peccati. La comunione dei santi.
1 Ed entrò di nuovo a Cafarnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa 2 e si radunarono tante persone, da non esserci più posto neanche davanti alla porta, ed egli annunziava loro la parola. 3 Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. 4 Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio su cui giaceva il paralitico. 5 Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati». 6 Seduti là erano alcuni scribi che pensavano in cuor loro: 7 «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» 8 Ma Gesù, avendo subito conosciuto nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate così nei vostri cuori? 9 Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? 10 Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, 11 ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio, e va’ a casa tua». 12 Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti e tutti si meravigliarono e lodavano Dio dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».
La pagina ascoltata è parte di un complesso di cinque dibattiti – conflitti che insorgono attorno all’operato di Gesù. Possono essere considerati all’interno delle discussioni delle scuole rabbiniche oppure indicativi di questioni che la comunità cristiana, entro la quale l’evangelista Marco scrive, stava affrontando.
Ecco le cinque dispute: 1. Il perdono dei peccati (Mc 2,7) 2. Accogliere nella comunità i peccatori, stare a mensa con loro, Levi – Matteo (Mc 2,16) 3. Il digiuno (Mc 2,19) 4. Cogliere spighe in giorno di sabato (Mc 2,23) 5. Guarire in giorno di sabato (Mc 3,4)
Questi conflitti provocano gli interlocutori di Gesù in modo crescente, da una reazione solo interiore a un proposito esplicito di ucciderlo.
1. L’INFERMO
Gesù si rivolge a lui con due espressioni imperative: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”, “Alzati e cammina”. Alcune osservazioni.
Il nodo dell’episodio è il perdono dei peccati. Da diversi punti di vista:
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dell’interessato: sorpresa, non se l’aspettava;
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degli scribi: lo scandalo per la bestemmia;
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della folla: l’esultanza.
Poniamoci anzitutto dalla parte del paralitico. Si aspettava ben altro, come chiunque di noi. Non intendeva scomodare l’onnipotenza divina alla quale soltanto – è cosa nota – compete il perdono dei peccati. Gli bastava un piccolo prodigio compiuto da questo guaritore di cui tutti parlavano.
Una parola sul peccato. L’evangelista non intende dire che quest’uomo, il paralitico, sia particolarmente peccatore, ma che è in condizione di peccato come ogni uomo. In greco, peccato si dice amartìa. Il vocabolo ebraico equivalente significa fallire il bersaglio, smarrire la via. Forse ha una radice beduina: in marcia nel deserto alcuni abbandonano la carovana, si perdono, rischiando di morire. Ma Dio, nella sua bontà, li riacciuffa e li ricolloca nella carovana della salvezza. Il peccato è un uscire dalla carovana.
Il paralitico ha altre preoccupazioni che riguardano il suo corpo, non la sua anima. Gesù non le disprezza affatto; Egli sa quanto poco sia vivibile la vita dentro un corpo immobile, paralizzato. Il bisogno della guarigione è serio e legittimo. Ma Gesù sa anche che in quell’uomo, come in ogni uomo, c’è un altro bisogno, forse inconsapevole: quello di rientrare nella carovana, di essere salvato, di restituire un significato alla propria vita.
Il primo gesto d’amore di Gesù consiste nel mettere il paralitico a contatto con un bisogno che lo abita, ma del quale lui non ha forse coscienza. Lo mette a contatto col suo peccato, non suscitando in lui un senso di colpa, ma annunciandogli che il suo peccato, qualunque esso sia, è già perdonato.
Quando gli dirà che è anche guarito nel corpo, si rivolgerà a lui con questo verbo “Alzati”, che ha un forte significato simbolico. È come se gli avesse detto: “Risvegliati, rinasci, risorgi”. L’intento dell’evangelista è di affermare che quanto avviene sotto lo sguardo di tutti (il paralitico si alza, prende il suo lettuccio e se ne va in presenza di tutti) è segno visibile di quanto invisibilmente è realmente accaduto in quell’uomo.
L’incoscienza del peccato. Nella Bibbia la vicenda del vitello d’oro dice che nel credente è sempre in agguato un processo riduttivo. Noi spegniamo le nostre attese, spesso senza accorgercene. Con facilità non sappiamo più cos’è il peccato. È soltanto la Parola di Dio che, suscitando in noi il senso della fede, suscita anche il senso del peccato. Come il contatto col pulito, con l’ordine, ci fa capire cos’è lo sporco e il disordine, così è solo il contatto col bene, con la santità, che ci fa capire cos’è il male. Non a partire dalla nostra introspezione ma a partire da una presenza luminosa noi ci accorgiamo della tenebra in cui siamo caduti. È sempre rischioso per l’uomo prendere coscienza dei propri peccati, se manca in lui la consapevolezza del perdono a portata di mano. È quello che fa Gesù col paralitico.
2. I QUATTRO BARELLIERI
Di questi uomini non conosciamo né il nome né il volto. La casa ove si trova Gesù è piena di gente, non c’è “più posto neanche davanti alla porta”, dice il testo. Scrive un autore: “La casa palestinese si compone normalmente d’una sola stanza, con sopra un tetto piano fatto d’un traliccio di rami poggiante su traverse di legno e ricoperto d’uno strato di fango secco che dev’essere risistemato ogni anno prima della stagione delle piogge. È dubbio che si possa fare un buco nel tetto se la casa è piena di gente” (E. Schweizer, Commento al Vangelo di Marco, Ed. Paideia, pp. 66-67).
L’iniziativa di questi uomini è probabilmente simbolica, per esprimere la loro generosità e intraprendenza. Marco chiama fede questa loro audacia e costanza
È fede in qualcuno? Fede generica in Dio? Nel maestroguaritore, Gesù di Nazareth? Oppure è soltanto la fede di chi non si arrende, non si dà per vinto, non accetta che la malattia, la paralisi, sia l’ultima parola pronunciata su un uomo? Anche attorno a noi, vivendo nel mondo e condividendo le condizioni più ordinarie di vita, possiamo riconoscere uomini e donne animati da questo tipo di “fede”, perché impegnati a estrarre il meglio dalla vita, o persone senza “fede” perché spente, rassegnate, che hanno tirato i remi in barca.
Ci sono persone, tra i giovani come tra gli adulti, che non si rassegnano a dire che non c’è più nulla da fare e spendono la loro esistenza perché qualcosa cambi nel mondo. Altri invece, sono paralizzati nel cuore, abitati da una mortificante sfiducia, incapaci di qualunque sogno e ancor meno di un gesto d’amore.
Il movimento, l’iniziativa, lo slancio dei quattro barellieri è tutto il contrario della paralisi dell’uomo che portano sulle spalle. Forse proprio perché sono così appassionati alla vita non sopportano che essa sia bloccata in qualcuno. E questo è già germe di fede. Possiamo anche chiederci se Gesù non riconosca se stesso in questi quattro uomini che si stanno prodigando per un altro. Non possono quei quattro rinviarci al buon samaritano, o al buon pastore, o al buon vignaiuolo, tutte immagini create da Gesù per parlare della cura di Dio per l’uomo?
La fede è loro: “vista la loro fede”. Non si fa cenno a nessuna attitudine dell’infermo verso Gesù. Diremmo che lui non ha nessun merito: lo hanno portato. Non solo perché lo hanno caricato sulle spalle, ma perché lo hanno portato col loro ardore, con la loro fede. Più volte nei Vangeli, innanzi a un infermo, sono annotate le parole di Gesù: “la tua fede ti ha salvato”. Qui sembra proprio che il paralitico sia totalmente passivo. Operano i barellieri e Gesù: “Uomo, sei perdonato per la fede di quelli che ti portano”.
Due osservazioni:
La fede è creatività; incalza la fantasia perché inventi. Sovente non riusciamo a pensare e a intraprendere nuovi percorsi perché la nostra fede è debole, vacillante. La fede che inventa, si fa operosa, intraprendente, si concretizza in gesti d’amore.
La fede è supplenza: come la preghiera di Abramo ha intenerito il cuore di Dio che voleva distruggere la città peccatrice, così tutti i veri credenti suppliscono alla mancanza di fede di molti. Scrive un autore: “Il mondo è aggrappato ai santi, la città è salva per pochi giusti”. Esiste un magnetismo del bene. La persona buona irradia attorno a sé un campo magnetico di luce, di grazia, di misericordia. Spesso noi siamo stupiti delle buone ispirazioni che germogliano in noi, della speranza che non ci abbandona nonostante la prova e forse ci chiediamo da dove ci venga tutto questo. È il campo magnetico del bene di persone che, come i quattro barellieri, non hanno né nome né volto. È il mistero della comunione dei santi. Notiamo ancora che la supplenza dei santi dura finché è necessaria e vien meno quando noi possiamo provvedere a noi stessi. È ammirabile nel Vangelo ascoltato la discrezione dei quattro barellieri, i quali scompaiono tra la folla non appena il loro servizio è terminato. Non c’è una parola nè un plauso per loro. Chi serve lo fa in silenzio, in modo gratuito.
3. L’ACCUSA E L’ESULTANZA
L’accusa
La reazione degli scribi è giustificata. Nel loro cuore prendono giuste distanze dalle parole di Gesù. Poiché soltanto Dio può perdonare i peccati, neanche il Messia lo avrebbe potuto fare. Qui c’è uno che si arroga il potere di Dio, il potere più forte, quello che “rimette”, cioè allontana ed annulla il peccato dell’uomo. Gesù bestemmia. Gesù si rivolge agli scribi e chiede loro: “«Perché pensate così nei vostri cuori? Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua.» Quegli si alzò, prese il suo lettuccio e se ne andò in presenza di tutti…”.
Lo svolgersi dei fatti sembra dire il desiderio di Gesù di evangelizzare gli scribi. La loro riserva interiore e l’accusa di bestemmia erano giustificate. Hanno diritto di sapere che qui sta accadendo un evento nuovo, imprevisto. E Gesù, soprattutto per loro, sembra guarire la paralisi del corpo a conferma della guarigione operata nella paralisi dell’anima.
L’esultanza
Il testo italiano traduce l’originale greco meraviglia e gioia, che coinvolge, espressa con quelle parole: “Non abbiamo mai visto nulla di simile”. Una traduzione più fedele dovrebbe dire che impazzivano di gioia. Il sollevarsi del paralitico guarito è così descritto dal testo latino: “surrexit ille. Et abiit coram omnibus”.
Quel surrexit non può che rinviarci alla risurrezione di Gesù, sorgente della vita nuova di cui l’uomo sanato usufruisce. Egli anticipa la Pasqua del Signore, alla quale il Vangelo di Marco sempre mira, e nella quale ognuno troverà salvezza. Quel surrexit del corpo è anche profezia della risurrezione dei nostri corpi che nell’eskaton diventeranno gloriosi.
Ma è anche importante quel coram omnibus, davanti a tutti. In questa pagina c’è una grande coralità: la folla dentro e fuori la casa, i barellieri, gli scribi e poi ancora la folla esultante. Agli occhi di tutti l’infermo è restituito alla propria autonomia: “prese il suo lettuccio e se ne andò”. Il peccato è una patologia che ripiega l’uomo su di sé. Il perdono lo restituisce alla sua capacità di relazione con Dio e con gli uomini.
Dice il testo che la meraviglia e la gioia coinvolgono tutti. Anche gli scribi? Probabilmente sì. Non c’è motivo per ritenere che si siano rifiutati di arrendersi agli eventi straordinari accaduti. L’evangelista ci consente di pensarlo. Perché non credere, nella nostra vita, nella Chiesa oggi, che persone le quali, con onestà, in base alle loro informazioni, hanno espresso un severo e legittimo giudizio, non siano capaci di cambiare avviso? In questa luce la presenza dolce e autorevole di Gesù, nel Vangelo ascoltato, è fonte di luce per tutti: per il paralitico, perdonato e guarito, per la folla, testimone esultante, per i quattro barellieri appassionatamente impegnati perché quel corpo guarisca, per gli scribi, custodi della legge, che detestano la bestemmia perché vogliono la salvezza eterna dell’uomo e lodano Dio con i più poveri, quando l’impossibile si avvera. Per questa ragione il titolo di questa meditazione era comunione dei santi, di tutti i santi, anche di quelli ai quali noi non faremmo credito.
Dalla vita al Vangelo, dal Vangelo alla vita
Riconosco che nella mia vita, come per il paralitico, ci sono dei “barellieri” che mi hanno portato e mi portano a Gesù. A volte sono capace di farmi carico dei fratelli e delle sorelle, forse anche quelle della mia comunità, per portarli al Signore…