Vangelo di Giovanni
– Capitolo 3 –
Lectio divina di Silvano Fausti
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BISOGNA CHE SIA INNALZATO IL FIGLIO DELL’UOMO CHIUNQUE CREDE IN LUI ABBIA VITA ETERNA. DIO INFATTI TANTO AMÒ IL MONDO DA DARE IL FIGLIO UNIGENITO, AFFINCHÉ CHIUNQUE CREDE IN LUI NON SI PERDA, MA ABBIA VITA ETERNA.
GIOVANNI 2,23 – 3,21
1. Messaggio nel contesto
“Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna. Dio infatti tanto amò il mondo da dare il Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non si perda, ma abbia vita eterna”. Con queste parole Gesù ci permette di scrutare il mistero di Dio e la sua relazione con noi: Dio è abisso d’amore che si vuol comunicare al mondo intero.
La “vita eterna”, quella vita pienamente felice che l’uomo desidera come compimento della sua umanità, non è il risultato di uno sforzo sovrumano: è dono gratuito del Padre della vita, che nel Figlio ci offre non solo di essere chiamati, ma di essere realmente suoi figli (1Gv 3,1). Chi crede nel Figlio e aderisce a lui, è generato da Dio (1,13), nato dallo Spirito, partecipe della vita divina, che è l’amore reciproco tra Padre e Figlio.
Il brano contrappone la nostra pretesa di scalare e conquistare il cielo all’umiltà di Dio che scende in terra e si concede a noi. Unica è la via alla vita, come unica è la vita: Dio stesso, che dona ad Adamo e ridona ad Abramo di essere suo figlio. L’altra è la via della perdizione, alla quale il padre della menzogna, omicida fin dal principio (8,44), ha indotto Adamo e i suoi figli: il tentativo di impadronirsi di ciò che è donato.
Dopo il confronto con l’alleanza senza vino, che ha ridotto il tempio a casa di mercanti, ora c’è quello con la legge, impersonata da Nicodemo, fariseo e capo dei giudei. Come l’alleanza e il tempio, anche la legge è buona: indica il cammino della vita. Ma né l’appartenenza al popolo, né il possesso del tempio, né l’osservanza della legge sono la vita. La vita è Dio stesso, nel suo amore di Padre verso i figli, di cui alleanza, tempio e legge sono segni e mediazione. Chi si ferma ai segni e non giunge al significato, fa di tutte le cose buone un idolo, una trappola mortale.
Il comandamento fondamentale è: “Amerai il Signore tuo Dio” (Dt 6,6ss). Ma l’uomo, fin dall’inizio, non sa amare. L’alleanza è trasgredita prima di essere stipulata (Es 32,1ss) e il tempio è ridotto a spelonca di ladri (Ger 7,11). In questa situazione anche la legge diventa denuncia delle nostre infedeltà e prostituzioni (Os 1-2; Ez 16), quando non è stravolta in mezzo di auto-giustificazione. Per questo i profeti hanno promesso un’alleanza nuova (Ger 31,31), un cuore e uno spirito nuovo (Ez 36,26), che soffi dai quattro venti, perché le nostre ossa aride e morte possano rivivere (Ez 37,9).
Nel brano si parla otto volte di “essere generati”, dall’alto/dallo Spirito o dalla carne, e si contrappone un sapere celeste e uno terrestre. Il Figlio dell’uomo “innalzato” ci dona la sapienza celeste: ci fa conoscere il mistero di Dio nella sua passione per l’uomo e ci rivela di essere suoi figli, generati dall’alto.
Credere in Gesù è accogliere il Figlio e nascere alla propria verità di figli. Come il serpente di bronzo, innalzato da Mosè nel deserto, guariva chi era morso dai serpenti (Nm 21,8s), così il Figlio dell’uomo innalzato ci guarisce dal veleno dell’antica menzogna che ci ha allontanati da Dio, facendoci ritenere invidioso, antagonista e vendicativo colui che invece è sorgente di vita e libertà (cf. Gen 3,1ss).
Il cap. 3 di Giovanni, composito e con sviluppi a sorpresa, è un progressivo venire alla luce, un uscire dalla notte al giorno, dalla legge al vangelo, dalla condizione servile alla libertà di figli. Sono numerose le allusioni battesimali (credere, essere generati dall’alto, dall’acqua e dallo spirito, dalla morte di Cristo, diventare figli, avere vita eterna, ecc.).
Il capitolo si articola in due parti principali (2,23-3,21 e 3,22-36), tra loro simmetriche, ciascuna con un racconto (2,23-3,2a e 3,22-26a), un dialogo (3,2b-12 e 3,26b-30) e infine un monologo (3,13-21 e 3,31-36). La prima parte è un confronto con Nicodemo, dove si dibatte il problema principale della salvezza: essa non viene dalla legge, ma è dono del Messia crocifisso. La seconda parte contiene, sulla bocca del Battista, la professione di fede, che nella prima parte era rimasta in sospeso.
Il tema centrale del brano è l’origine della vita. Non è la legge, ma l’adesione al Figlio, che ci fa vivere da figli e compiere ogni legge. Le parole di Gesù a Nicodemo hanno l’intento di operare in noi quel passaggio al cuore nuovo, richiesto dalla legge e promesso dai profeti, che vediamo così ben descritto in Filippesi 3, dove Paolo racconta la sua esperienza di uomo della legge che incontra il Signore. Nei vv.12-21, escono i temi fondamentali del vangelo: il Figlio dell’uomo innalzato, credere/non credere, vita eterna, l’amore di Dio, il dono del Figlio unigenito, salvezza/perdizione, non-giudizio/giudizio, luce/tenebre, amore/odio, fare la verità/fare il male.
Al centro del brano sta la persona di Gesù, che Nicodemo, fariseo ben disposto, riconosce come Messia. Ma chi è il Messia che viene a rinnovare l’alleanza e il tempio? Qual è il “flagello” con il quale trionfa sul male? Gesù è sì il Messia, ma non corrisponde all’attesa di chi sogna un messia potente che stermina i malvagi e premia i buoni (e chi si salverebbe?). è invece l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29), il Figlio dell’uomo innalzato, il Figlio di Dio crocifisso, che ci dona l’amore del Padre e ci rende figli, capaci di amare come siamo amati.
Gli attori del cap. 3 sono Gesù da una parte e Nicodemo con il Battista dall’altra: è il dialogo della Parola con la legge e i profeti, che fa comprendere il mistero del Figlio dell’uomo.
Gesù è il Messia che, in quanto crocifisso, ci dà la vita, quella vita che la legge dice ma non dà e che i profeti solo promettono. La legge infatti prescrive ciò che bisogna fare; la profezia a sua volta denuncia ciò che non facciamo e annuncia ciò che Dio farà per noi. Legge e profezia sono, rispettivamente, richiesta implicita e promessa esplicita dello Spirito del Figlio.
Gesù non è venuto per abolire la legge e i profeti, ma per portarli a compimento (cf. Mt 5,17). Il comando che ci darà, sarà insieme nuovo e antico (1Gv 2,7-11). La novità sta nel fatto che, ciò che è antico come il desiderio dell’uomo, finalmente si realizza. Per questo ci lascerà il comando dell’amore reciproco (13,1ss), pieno compimento della legge (Rm 13,10).
Lo stile del brano, con un metodo caratteristico di Giovanni, è una progressione a salti, dove le incomprensioni e i fraintendimenti, vie interrotte e senza sbocco, servono alla Parola per condurre l’interlocutore a un livello superiore. Le note di questo dialogo, che si svolge nell’oscurità della notte, sono molteplici e sfumate, quasi incantate, come in un notturno. Sembrano eterogenee, con continui cambi di registro: sono i vari gradini che, uno sopra l’altro, portano a un orizzonte sempre più ampio, sino ad aprire, nel Figlio dell’uomo innalzato, la finestra sul mistero insondabile di Dio e dell’uomo, suo figlio nel Figlio. Come al solito i discorsi di Giovanni rivelano ciò che avviene nel cuore di chi legge: il lettore si accorge di essere letto da ciò che legge, perché la Parola, nel manifestarsi, con la sua luce risveglia la verità che già è in lui, come in tutti gli uomini.
Gesù, il Figlio dell’uomo innalzato, è la luce che ci fa venire alla luce, il Figlio che ama i fratelli come è amato dal Padre. Egli è il compimento della legge, amore pienamente realizzato di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio.
La Chiesa, guardando il Figlio dell’uomo innalzato, nella contemplazione della passione del suo Signore per lei, nasce come sua sposa. Eva fu tratta dal fianco di Adamo addormentato: la Chiesa è generata dalla ferita d’amore del suo Signore.
2. Lettura del testo
v. 23: A Gerusalemme, nella festa di Pasqua. Il luogo dove si parla della nascita dall’alto è Gerusalemme, il tempo è la Pasqua. Proprio lì, in quei giorni, il Figlio dell’uomo sarà innalzato, a salvezza di chiunque lo vede.
molti credettero nel suo nome. Il tema del brano è “credere in Gesù”. Non solo come Messia, che rinnova l’alleanza e il tempio, ma anche come Figlio innalzato, che ci dà il cuore nuovo e lo spirito nuovo.
La parola “credere”, come “aver fiducia” o “aver fede”, ha molti significati. Se dico: “Credo che presto pioverà”, esco con l’ombrello. Se dico a uno: “Credo a quanto mi dici sulla bontà di quell’affare”, concludo l’affare. Se dico a una persona: “Ti credo quando dici di amarmi”, posso affidarle la mia vita. Allo stesso modo credo che il cibo non sia né guasto né avvelenato, che l’automobile non mi si sfasci in corsa, che il soffitto non mi crolli sopra o il pavimento non mi sprofondi sotto, che le tabelle dei calcoli non siano sbagliate, che gli scienziati e i medici non si ingannino né ingannino; lo stesso vorrei anche da commercianti e politici, come da tutti. I nostri rapporti, di ogni tipo, sono fondati sulla fiducia. Diversamente nulla sarebbe stabile e affidabile: non saremmo in grado di compiere alcuna azione. La fede è una valutazione ragionevole di ciò che non si vede, desunta da ciò che si vede; è un’ipotesi che giustifica la mia azione, che poi posso e devo verificare. Veramente l’uomo vive di fede! Il problema è dove riporre ragionevolmente la propria fiducia. A questo serve l’esperienza e l’intelligenza.
Credere in Gesù significa fondare il senso della propria vita sull’affidabilità del suo amore di Figlio che rivela quello del Padre. L’alternativa è fondarla sulla propria osservanza di leggi o convinzioni che si ritengono giuste. È la differenza tra la “re-ligione”, che lega e ri-lega l’uomo ai suoi doveri, e la libertà di figli che amano come sono amati.
vedendo i suoi segni che faceva. Oltre il segno del “vino” a Cana, Giovanni non ne riferisce altri, ma li suppone.
Il dialogo con Nicodemo vuol far passare dai segni al loro significato: il Figlio dell’uomo crocifisso, che rivela l’amore del Padre. Chi lo vede e aderisce a lui, è generato da Dio e ha la capacità di diventare figlio di Dio (cf. 1,12s).
La fede cristiana implica un passaggio dalle attese dell’uomo alla promessa di Dio, più grande di ogni fama (Sal 138,2). Dio non solo ci fa dei doni, ma ci vuol donare se stesso. In ogni promessa, si com-promette sempre anche colui che promette.
v. 24: Gesù però non si fidava di loro. Credere e fidarsi in greco sono la stessa parola con complementi diversi. Anche se essi si fidano e si affidano a lui, di loro Gesù non può fidarsi, tanto meno confidarsi e affidarsi. Infatti lo credono il Messia che vincerà il male con la forza, ignorando che la sua forza non è quella di crocifiggere i malvagi, bensì quella del Figlio crocifisso, che porta su di sé la malvagità dei fratelli.
Il dialogo con Nicodemo toglie l’ambiguità di fondo di ogni religiosità. Dio non compie i nostri desideri, che corrispondono alle nostre paure che ci hanno allontanato da lui; compie invece la sua promessa e si dona a noi così com’è: amore e nient’altro che amore. Troviamo quest’ambiguità (molto umana, anzi diabolica) anche nei discepoli dopo le tre predizioni della passione riferite dai sinottici (cf. Mc 8,31-33p; 9,30-32p; 10,32-40p): Pietro che, a nome di tutti, non accetta il Figlio dell’uomo innalzato, sarà chiamato satana (cf. Mc 8,33; Mt 16,23).
v. 25: conosceva cosa c’era nell’uomo, ecc. Gesù ha lo Spirito di Dio (1,32), che scruta ogni cosa (1Cor 2,10). Il Figlio conosce i fratelli, anche là dove essi non si conoscono.
v. 3,1: c’era un uomo dei farisei. Noi associamo “fariseo” a “ipocrita”. Gesù in effetti denuncia come tali quei farisei che, non amando né Dio né gli uomini, si servono della legge per far mostra di sé (cf. Mt 23). In realtà il fariseo è uno che ama la legge come espressione della volontà divina e si sforza di osservarla fedelmente. Gesù vuol portare questo fariseo a compiere la stessa esperienza che Paolo racconta in Filippesi 3. A chi segue la legge, luce per i suoi passi e via della vita, vuol mostrare se stesso come luce e vita (cf. 1,4-9).
Gesù non è venuto ad abolire, ma a compiere la legge e i profeti (Mt 5,17). E il pieno compimento di ogni parola è l’amore (cf. Dt 6,4ss; Rm 13,10). ma l’amore non è frutto di legge e di sforzo: uno può amare solo in quanto è amato gratuitamente.
Sorgente dell’amore è Dio, che è amore. Egli ci ama con l’amore necessario della madre, con quello libero del padre e con quello responsabilizzante del partner. E in questo consiste l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che per primo ci ha amati e ci ha donato il suo Figlio (1Gv 4,10 vg). Egli ci mostra il suo amore incondizionato proprio perché, ancora quando eravamo peccatori e suoi nemici, ha dato la vita per noi (Rm 5,8).
Nicodemo. Riapparirà più tardi per difendere Gesù (7,50s) e, alla fine, per deporre il suo corpo nella tomba (19,39).
capo dei giudei. Appartiene probabilmente al Sinedrio, organo centrale del governo.
v. 2: venne da lui. Come il giovane, osservante della legge, ricco e nobile (Mc 10,17-22p), viene di sua iniziativa da Gesù. Come passare dalla propria iniziativa ad accogliere quella di Dio?
di notte. Non è un vigliacco, mosso da paura e da rispetto umano (cf. 12,42): è la notte che vuol venire al giorno, un dubbioso che cerca la verità.
Le parole che Gesù dirà porteranno Nicodemo ad accogliere la luce, mostrando al “maestro di Israele” che è cieco (cf. 9, 40s). Solo così potrà venire alla luce e nascere dallo spirito. La tenebra non si illumina producendo il sole, ma accogliendolo.
Nicodemo, come Israele e tutti i discepoli di Gesù, deve confrontare la sua attesa di un messia potente con il Figlio dell’uomo innalzato. Nicodemo è figura emblematica del cammino di Israele e di chiunque cerca la luce della vita. Se all’inizio viene di notte, alla fine verrà verso il tramonto, per deporre nell’oscurità del sepolcro il corpo del Figlio dell’uomo innalzato. La notte, che desidera il sole, l’accoglierà solo quando esso entrerà nelle tenebre.
Rabbì, ecc. Nicodemo chiama Gesù “Maestro”. Non è un semplice collega: sa che è “venuto da Dio”, come Mosè (Es 4,8); e, vedendo i segni che compie, conclude che “Dio è con lui”. Lo riconosce come Maestro e Messia, autenticato da Dio.
Non dice cosa vuol chiedergli. Nella sua constatazione c’è la sorpresa di chi intravede il compimento della speranza di Israele: Gesù è il Messia, l’iniziatore del regno di Dio in terra. Dalla risposta di Gesù si capisce che la sua domanda implicita è sapere il modo di entrare in questo regno. Come il giovane ricco, intuisce che, al di là dell’osservanza della legge che ha sempre adempiuto, è necessario qualcos’altro per avere la vita eterna (cf. Mc 10,17-22p).
v. 3: amen, amen ti dico. Gesù risponde con autorità divina. L’“amen” (= in verità) raddoppiato, è una particolarità di Giovanni (cf. 1,51; 3,3.5.11; 5,19.24.25; 6,26.32.47.53; 8,34.51.58; 10,1.7; 12,24; 13,16.20.21.38; 14,12; 16,20.23; 21,18). Quando parla il profeta a nome di Dio, dice: “Parola di Dio”. Quando parla Dio stesso, in prima persona, dice : “Amen, in verità”. Comincia qui il primo dei numerosi dialoghi del vangelo di Giovanni. La loro funzione è quella di coinvolgere il lettore. Gesù è la Parola, l’interlocutore sono io che leggo, nel quale la Parola produce esattamente ciò che dice: il dialogo mi racconta, e raccontandomi, mi trasforma.
se uno non è generato. La parola greca significa sia “nascere” che “essere generato”. Preferiamo il secondo, passivo, che richiama colui che dà la vita (passivo divino). Infatti nessuno nasce da solo o da se stesso. Per otto volte di seguito esce questa parola. Chi è generato, vede finalmente il volto di chi lo genera: è l’ac-cadimento fondamentale, che lo fa cadere fuori dalla madre ed esistere distinto da lei, come suo figlio.
dall’alto. La stessa parola greca significa sia “di nuovo” che “dall’alto”. Da qui l’equivoco tra Gesù e Nicodemo. Questi intende le sue parole come un nascere “di nuovo”. È il desiderio dell’uomo, il sogno dell’eterna giovinezza, principio di delusioni e frustrazioni. Gesù invece parla di un essere generati “dall’alto”, che consiste nell’accettare il dono di essere figli di Dio, di venire alla luce del suo amore perenne per noi. Questo è il desiderio di Dio per noi, che ci ama e ci vuol comunicare la sua vita.
C’è una generazione dal basso, dalla carne, che ci dà la vita comune a ogni animale. Ma c’è anche una generazione dall’alto, che viene dal “vedere” il volto di chi genera. Questa ci dà la vita pienamente umana: ci fa figli che riconoscono la propria origine ed entrano con essa in relazione d’amore.
Gesù vuol portare Nicodemo al di sopra della legge, che dice cosa fare. La vita non è prodotta dal nostro fare. Nessuno “si fa da sé”: ognuno è figlio, generato dall’altro. E diventa se stesso solo quando vede e crede all’amore di chi lo genera. Diversamente non ha la sua identità e cercherà all’infinito di trovarla altrove. Con molto danno per sé e per gli altri. Infatti è impossibile farsi da sé, come amarsi da sé: è sempre l’altro che ci genera e ci ama. Solo se accettiamo di essere generati e amati, siamo noi stessi, capaci di generare e amare, simili a chi ci ha generato. Voler essere madri/padri di se stessi – il complesso di Edipo è anche il peccato di Adamo – è distruggere se stessi e ogni rapporto autentico con gli altri.
Ciò che vale per la vita umana in generale, vale anche per quella spirituale. Uno non può diventare figlio di Dio perché non trasgredisce nessun suo ordine (cf. Lc 15,29!); il suo sforzo non gli consentirà mai di farsi tale. Diventerà invece capace di ascoltare e osservare la sua parola quando saprà di essere figlio, da sempre amato.
C’è una vita religiosa dal basso, che non giova a nulla: ciò che è carne, resta carne. Solo chi è generato dall’alto ha la vita eterna: ciò che è dello spirito, è Spirito (cf. v. 6).
Gesù conduce Nicodemo al di là della legge, sino alla sorgente stessa della vita: al dono del cuore nuovo e dello spirito nuovo di cui parlano i profeti, che pure il fariseo conosce (cf. Ez 36,26s; Ger 31,31ss). Entrare nel regno di Dio non è opera dell’uomo, ma dono di Dio.
non può vedere il regno di Dio. Chi non ha il cuore nuovo, resta nella notte, in quell’impossibilità di vivere e amare che la legge denuncia. “Il regno di Dio” è un’espressione che in Giovanni esce solo qui e al v. 5. Se Dio è madre/padre, il suo regno è l’amore corrisposto del Figlio. In questo regno di libertà entra non chi cerca di conquistarlo, ma chi accetta di essere figlio, chi diventa come un bambino (cf. Mt 18,3p), figlio nel Figlio. Allora sarà in grado di accettare anche il fratello. L’amore fraterno è il luogo in cui si realizza quello verso il Padre.
v. 4: come può un uomo essere generato quando è vecchio, ecc.? Nicodemo mostra l’impossibilità per l’uomo vecchio di entrare una seconda volta nel grembo materno e nascere di nuovo. È vero: l’uomo, soprattutto se vecchio, deve morire. L’uomo nuovo nasce non entrando nella madre, ma volgendosi verso il cuore del Padre. Uno nasce a se stesso quando sa di essere amato com’è; solo l’amore fa venire alla luce della propria verità.
v. 5: se uno non è generato da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Non c’è da entrare nel seno della madre, ma nel regno del Padre: solo così siamo figli. Se la madre è necessaria per nascere biologicamente, l’amore libero del padre è necessario per nascere come uomini. La generazione di cui Gesù parla non è dalla carne, dal basso, ma dall’alto, dallo Spirito. Il battesimo di Gesù, oltre che nell’acqua – che in Giovanni è simbolo della vita (4,14; 7,37-39; 19,34; cf. Ez 36,25-27) –, sarà nello spirito, che è fuoco divino di amore (cf. 1,33). Uno infatti esiste come persona quando è amato: nasce dalla ferita del cuore di chi lo accoglie e lo lascia entrare in sé, amandolo così com’è, distinto da sé. In questo senso anche Eva, la donna, è generata da Adamo, il maschio. E solo così anche Adamo si risveglia dal sonno (cf. Gen 2,18ss). Infatti uno viene alla luce piena quando lui stesso ama.
Lo Spirito di Dio, che nella creazione aleggiava sulle acque (Gen 1,2), sarà effuso su di noi dal Figlio innalzato per donarci la vita nuova.
v. 6: ciò che è generato dalla carne è carne, ecc. Carne, in opposizione a spirito, indica ciò che ci accomuna alla terra: l’elemento debole, corruttibile e mortale. Spirito è invece ciò che ci imparenta con Dio: la forza perenne del principio vitale. Sin dall’inizio l’uomo è composto di argilla e di soffio divino (Gen 2,4bss), di terra e di cielo. La terra non può vivere che di cielo.
v. 7: non meravigliarti. Come non stupirsi della più grande delle meraviglie: la sorpresa di vedere la luce, di esistere?
bisogna che voi siate generati dall’alto. “Voi” siamo tutti noi, con Nicodemo, contrapposti a Gesù che da sempre è l’unigenito del Padre. “bisogna” che noi siamo generati dall’alto; per questo “bisogna” che lui sia innalzato (v. 14). Al nostro bisogno di luce corrisponde il suo di illuminarci. “È per nascere che si è nati”, per nascere dall’alto.
v. 8: lo spirito dove vuole spira. Qui spirito è inteso in senso originario: il vento che muove e vivifica tutto, quasi misterioso respiro di Dio sull’universo. Nessuno lo vede; eppure ognuno ne avverte gli effetti e lo sente risuonare in tutte le cose. È come il mistero della “Parola”, vita di tutto ciò che esiste: non la vediamo, ma ne ascoltiamo la “voce” attraverso i sapienti e i profeti che testimoniano la luce.
La vita nessuno la vede; però fa esistere, vedere, capire e amare ogni realtà. Del vento non sappiamo donde viene e dove va; così di Gesù (cf. 2,9; 4,11; 6,5; 7,27). Per questo gli chiediamo dove dimora, per dimorare anche noi presso di lui e trovare la casa da cui veniamo (cf. 1,38s).
così è chiunque è generato dallo Spirito. ciascuno di noi, che accoglie Gesù, diventa come lui, figlio che gode la vita del Padre. Ci dà infatti il potere di diventare figli di Dio (1,12). Viene a questa luce chi accoglie la “voce” di chi la testimonia, senza scambiare la “voce” per la “Parola” (cf. 1,23ss).
v. 9: come può avvenire questo? Chiarito l’equivoco che non si tratta di nascere di nuovo, ma di essere generati dall’alto, Nicodemo avanza il dubbio sulla possibilità di questa generazione. Infatti è impossibile per l’uomo; ma non per Dio (cf. Mc 10,17p; Lc 1,37; Gen 18,14).
v. 10: tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? Un esperto di Scritture dovrebbe sapere che lo Spirito, principio della creazione, è la grande promessa dei profeti per la ri-creazione. Ma si può conoscere la legge e ignorare quale Spirito la anima; si può osservare ogni precetto e trascurare l’amore, che è “il” comandamento. Perché l’amore lo conosce non chi si sforza di amare sino allo spasmo, ma chi accetta tranquillamente di essere amato.
v. 11: amen, amen ti dico. Comincia il monologo di Gesù davanti a Nicodemo (“ti dico”), che subito scompare dalla scena per dissolversi negli ascoltatori (cf. 12: “vi parlai”).
parliamo di ciò che conosciamo, ecc. Da qui in poi Gesù svela il mistero di come avviene questa generazione dall’alto. Egli dice: “Parliamo, conosciamo, testimoniamo e abbiamo visto”, perché è il Figlio che parla di ciò che conosce e testimonia ciò che ha visto. I verbi sono al plurale perché con lui ci sono anche i discepoli, che hanno visto la sua gloria (2,11) e ne continuano la testimonianza. Tra costoro c’è l’evangelista stesso e la sua comunità (cf. 20,30s).
v. 12: se vi parlai di cose terrestri, ecc. Gesù chiama “cose terrestri” quanto ha detto sulla nascita dalla carne e sulla necessità di una nascita dallo Spirito. Infatti ne parlano la legge e i profeti, chiamati terrestri perché testimoni di quella luce che da sempre è presente, nella creazione e nella storia di Israele. Essi danno voce al desiderio dello Spirito che è in ogni uomo. Se non si crede a questa voce, non si crede neanche alla Parola, che ci rivela le cose celesti. La legge infatti non è in cielo, ma vicina a ogni uomo (cf. Dt 30,12ss).
Le cose “celesti” invece sono rivelate dal Figlio, disceso dal cielo. Gesù vuol aprire Nicodemo, maestro della legge, al dono dello Spirito, che l’uomo animale non comprende (cf. 1Cor 2,14).
v. 13: nessuno è salito al cielo, ecc. Chi è salito al cielo e ne è ridisceso (Pr 30,4) o si è impadronito della Sapienza, per farla scendere dalle nubi (Bar 3,29; Sap 9,16ss)? Nessuno può, come Adamo, i Titani o Prometeo, dare la scalata al cielo per rapire le cose celesti o il fuoco. È invece il cielo che scende sulla terra, per donarci se stesso. Dio è amore che scende nel Figlio verso tutti i fratelli. Essere figlio non è oggetto di rapina, ma dono di amore.
Il Figlio dell’uomo innalzato – su di lui è aperto il cielo, sia per scendere che per salire (1,51) – è il solo che può manifestarci la Gloria e raccontarci il Padre. In lui c’è la discesa di Dio verso l’uomo e l’ascesa dell’uomo a Dio.
La “salita al cielo”, di cui si parla, non è tanto l’ascensione al padre di Gesù risorto; per Giovanni è piuttosto il suo “essere innalzato” (cf. v. 14).
v. 14: come Mosè innalzò il serpente nel deserto. Al popolo, morso dai serpenti, Mosè mostrò, elevato come stendardo, un serpente di bronzo (Nm, 21,8): “chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quel che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti” (Sap 16,7). Chi levava in alto lo sguardo, era guarito dal veleno mortale. Se Eva, alla suggestione del serpente, avesse “levato” lo sguardo a Dio, invece di fuggire e nascondersi da lui, certamente la storia sua e nostra sarebbe stata diversa.
così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo. “Bisogna” che noi nasciamo dall’alto: per questo “bisogna” che il Figlio dell’uomo sia “innalzato”. Innalzato significa anche “glorificato” (in Is 52,13 i due termini sono accostati). Gesù è sì il Messia, come Nicodemo pensa, ma non è come lui pensa: lo è in quanto elevato sulla croce, come il serpente di bronzo sull’asta.
Le tre predizioni sull’innalzamento del Figlio dell’uomo, che troviamo in Giovanni (3,14; 8,28; 12,32), corrispondono alle predizioni della sua morte e risurrezione, che troviamo negli altri vangeli. Però in Giovanni la croce è presentata come gloria sin dall’inizio, mentre nei sinottici lo è solo alla fine (cf. Mc 15,39p).
Qui si dice che dal Figlio dell’uomo innalzato otteniamo la vita eterna; in 8,28 si dice che conosceremo “Io-Sono”; in 12,32 che tutti saremo attirati a lui. Contemplando il Crocifisso, siamo “svelenati” dalla menzogna del serpente che ci ha tolto la conoscenza del padre e ci ha fatto fuggire da lui. In lui conosciamo la verità di Dio e nostra: egli ci ama e noi siamo l’amore che lui ha per noi. Volgendo lo sguardo a colui che abbiamo trafitto (19,37), ai piedi della croce scopriamo questa verità che ci fa liberi (8,32) e nasciamo dall’alto. Come Eva, la sposa, nasce dal fianco di Adamo che dorme, così l’umanità nuova, sposa di sangue del suo Signore, nasce dalla ferita d’amore del suo Dio.
Il Crocifisso è paragonato al serpente di bronzo innalzato: in lui vediamo il male che il serpente ci ha procurato, ma anche il bene che Dio ci vuole. Egli è infatti l’agnello che porta il male del mondo (1,29), facendosi lui stesso maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), per manifestarci il suo amore incondizionato. Vedendolo in croce, non possiamo più dubitarne.
Inoltre “Serpente” e “Messia” hanno in ebraico lo stesso valore numerico: la somma delle loro lettere è 358. “Messia” ha però una lettera in più, la più piccola di tutte, che sta sospesa in alto: la jod, che è l’inizio del “Nome”. Nel Messia elevato l’uomo vede, oltre tutto il male, il sommo bene; in lui il Nome divino si manifesta al mondo: esce dalle tenebre e viene alla luce della propria identità, nascosta appunto dal male.
La salvezza di Dio non ignora il male. Sarebbe falsa. Lo assume invece in modo divino, per amore. E lo vince nel perdono, dove tutti, dal più piccolo al più grande, conosciamo chi è il Signore (Ger 31,34).
v. 15: affinché chiunque crede in lui. Il fine del suo essere innalzato, che ci fa conoscere Io-Sono (8,28) e ci attira a lui (12,32), è aderire a lui, sorgente della vita.
abbia vita eterna. La vita eterna, il dono che Dio fa ad ogni uomo nel Figlio dell’uomo, è lo Spirito, l’amore tra Padre e Figlio, la vita stessa di Dio.
v. 16: Dio infatti tanto amò il mondo. Dio da sempre ama il mondo, anche se il mondo lo rifiuta. L’amore del Padre è gratuito e senza riserve. Il Figlio, che lo conosce e ne vive, ce lo testimonia dalla croce. Questo versetto ci presenta il centro del vangelo di Giovanni, che vuol portarci a confessare con meraviglia: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi”. Infatti “Dio è amore” (1Gv 4,16). Solo a questa luce possiamo comprendere correttamente tutta la rivelazione e correggere ogni sua interpretazione.
da dare il Figlio unigenito. Perché il Padre manda il Figlio? Non poteva venire e farsi carne lui stesso? Ci ha dato il Figlio perché solo in lui, che ama come è amato, vediamo la nostra identità di figli del Padre.
Gesù, essendo figlio, ha vissuto ciò che anche noi siamo chiamati a vivere: la “filialità” e la conseguente fraternità. Egli ci ama dello stesso amore che il Padre ha per lui (15,9) e ci assicura che il Padre ci ama come lui (17,23), con un amore che è prima della fondazione del mondo (17,24).
chiunque crede in lui, ecc. La salvezza è credere in Gesù crocifisso, il Figlio dell’uomo innalzato: lui è la Parola, luce e vita di ogni uomo, diventata carne per narrarci l’amore assoluto del Padre. In lui ci è data la nostra identità di figli e noi siamo ciò che siamo. Al di fuori di lui, siamo ciò che non siamo, il nulla di noi stessi. Per questo accogliere lui, il Figlio, è trovare se stessi; rifiutare lui è perdere se stessi.
v. 17: non per giudicare il mondo. Il Figlio ha lo stesso giudizio del Padre. Egli viene con il flagello nel tempio non per giudicare o condannare il mondo peccatore. È venuto a salvarlo proprio “purificando” il tempio, sdemonizzando con la sua croce l’immagine diabolica che l’uomo ha di Dio e di sé. In lui “innalzato” abbiamo la conoscenza vera di lui e di noi stessi, che la bocca del serpente ci aveva sottratta. Il “flagello” che purifica il tempio è la sua croce.
La salvezza o la perdizione non è predestinazione divina. Dio ha creato tutto per la vita e non c’è veleno di morte nelle sue creature, se non quello che ci siamo procurati noi, credendo alle nostre paure invece che a lui (cf. Sap 1,12s; 2,24). Ma se abbiamo abbandonato lui, sorgente di acqua viva (Ger 2,13), egli non ci ha abbandonato; ci ha anzi manifestato nel modo più grande e indubitabile il suo amore, perdendo se stesso per noi. Nell’abbandono del Figlio sulla croce (cf. Mc 15,34p), nessun abbandono è più abbandonato: in ogni perduto il Padre vede suo Figlio, che di ogni perdizione ha fatto dimora della Gloria.
v. 18: chi crede in lui non è giudicato. Aderire a lui è la “santità e giustizia” vera: è vivere del Figlio e da figli, partecipare alla gloria comune del Padre e del Figlio.
chi invece non crede è già stato giudicato, ecc. Chi non crede all’amore assoluto offerto dal Figlio dell’uomo innalzato si esclude dall’amore e dalla vita. Chi non aderisce al Figlio, nega la propria realtà di figlio.
La decisione di fede nei confronti della “carne” di Gesù ci fa nascere dall’alto: è la vita eterna. Il prologo non dice che chi lo rifiuta nella testimonianza dei sapienti e dei profeti è giudicato. Anzi, la Parola si è fatta carne per salvare questo mondo che non ha accolto la luce e si è condannato alle tenebre. Per questo ogni uomo, come Nicodemo, pur tra incertezze e difficoltà, va condotto a nascere dall’alto attraverso la conoscenza del Figlio. Il senso della storia umana è la rivelazione del Figlio, il suo crescere fino alla sua statura piena (Ef 4,13), perché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28). Infatti, se è vero che la rivelazione è storia e carne, è altrettanto vero che la storia e la carne stessa sono rivelazione sempre più grande di Dio.
v. 19: questo è il giudizio: la luce è venuta nel mondo, ecc. Il giudizio per chi, pur conoscendola, non accoglie la Parola diventata carne, è quello di preferire le tenebre alla luce, la morte alla vita. Il giudizio sull’uomo lo fa l’uomo stesso, non Dio.
Come è possibile il rifiuto della luce, una volta conosciuta? È un mistero! Certamente l’accoglienza dell’amore è sempre un atto di libertà. Ma può la libertà rifiutare l’amore, se davvero è “liberata” dalla schiavitù dell’ignoranza e della paura?
erano infatti cattive le loro opere. Queste “opere cattive” sono indicate come causa, non come conseguenza del rifiuto. Può la fede dipendere dalle opere, in modo che chi è buono è ben disposto e crede, mentre chi è cattivo è maldisposto e non crede?
È fuori dubbio che siamo giustificati dalla fede, non dalle opere (Gal 2,16). Non può essere diversamente, perché la radice di ogni giustizia è accogliere l’amore gratuito di Dio per noi. È tuttavia vero che “Dio non fa preferenza di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34s); come è altrettanto vero che l’uomo può tenere la verità prigioniera dell’ingiustizia (Rm 1,18). In realtà uno crede e ama ciò che ritiene bene per lui. L’occhio abituato alla tenebra è offeso dalla luce, per la quale è pur fatto. Fin che la nostra intelligenza e la nostra volontà restano schiave della menzogna e della paura – e del vizio che le alimenta – non possiamo accedere alla verità e all’amore.
Qui Giovanni intende dire che, prima di ogni nostra opera e della decisione stessa riguardo alla fede, c’è una malvagità tenebrosa che porta alla diffidenza e all’incredulità. Egli non intende spiegare il male. Constata semplicemente che c’è e lo svela. Infatti esso è menzogna e viene alla luce solo davanti alla verità. Le opere tenebrose di cui l’evangelista parla sono quindi il peccato di incredulità, opera del malvagio, padre della menzogna e omicida sin dal principio (8,44), che ci impedisce di essere figli di Abramo, padre dei credenti.
Per Nicodemo, come per tutti, è lento il travaglio che fa venire alla luce. Giungere alla verità è un cammino di liberazione progressiva, di piccoli passi. E lo compie la Parola stessa. Infatti solo quando giunge la luce, e non prima, si esce dalla tenebra.
v. 20: chiunque fa il male odia la luce. L’odio della luce, frutto di paura, è causato dal male che facciamo; questo, sua volta, manifesta l’odio che lo precede.
affinché non siano denunciate le sue opere. Il male vuole restare nascosto per non essere denunciato, come la menzogna per non essere sbugiardata. Da Adamo in poi c’è una resistenza, ereditaria e ambientale, nel credere all’amore di Dio per noi. Solamente davanti alla croce cessa l’inganno: conosciamo Io-Sono (8,28) e siamo attratti a lui (12,32). Allora muore l’uomo vecchio e nasce quello nuovo. Ma l’uomo vecchio è duro a morire! In ciascuno di noi c’è un agone interiore (cf. Rm 8,17ss): siamo contesi tra menzogna e verità, paura e fiducia, egoismo e amore. Siamo però gli arbitri: possiamo, giorno dopo giorno, aggiudicare la vittoria a chi vogliamo. Il nostro libero arbitrio può esercitarsi, almeno parzialmente all’inizio e poi sempre di più, solo nella misura in cui conosciamo la verità dell’amore che ci fa liberi. Per questo è importante levare lo sguardo e tenerlo sul Figlio dell’uomo innalzato.
v. 21: chi fa la verità viene alla luce. Fare la verità è il contrario del “fare il male” o “le opere cattive”. Ma per fare la verità bisogna prima conoscerla. Per questo bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato: in lui vediamo l’amore con cui siamo amati.
Credere in Gesù è “fare la verità” su di sé e su Dio. A chi chiede: “Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”, Gesù risponderà che l’opera di Dio, che piace a Dio e lui stesso compie, è credere nel Figlio, inviato dal Padre (6,28s).
affinché si manifestino le sue opere, ecc. Le opere “fatte in Dio” sono quelle di chi si unisce al Figlio e aderisce alla Parola. Sono le opere del Padre Abramo, che vide il suo giorno e gioì (8,56). L’opera di Abramo infatti è quella che piace a Dio: credette a lui e gli fu accreditato a giustizia (Gen 15,6). Egli compie il contrario di quanto fece Adamo, che diffidò di Dio. L’incredulità è la più grave ingiustizia: nega l’essenza di Dio e dell’uomo, la sua paternità e la nostra filialità.
Chi crede nel Figlio è nato dall’alto, dall’acqua e dallo Spirito, ed è passato dalle opere che la legge condanna alla vita nuova da figlio di Dio (cf. Gal 5,18-23) Il dialogo, laborioso, di Gesù con Nicodemo è una progressiva illuminazione della Parola per farlo venire alla luce, partendo da ciò che già sa per condurlo a ciò che ignora, eppure desidera. Nicodemo però non è ancora in grado di giungere alla fede. Dovrà vedere il Figlio dell’uomo innalzato prima di poterlo accogliere.
IL PADRE AMA IL FIGLIO.
CHI CREDE NEL FIGLIO HA VITA ETERNA
3,22 – 4,3
1. Messaggio nel contesto
“Il Padre ama il Figlio. Chi crede nel Figlio ha vita eterna”, dice Giovanni il battezzatore, facendo eco alle parole che Gesù ha appena proclamato. Il testimone della luce ne accoglie la testimonianza e compie la professione di fede, rimasta in sospeso nel racconto precedente. Gesù, il Figlio, è venuto a rivelarci l’amore del Padre. L’oggetto della fede cristiana non è una dottrina, una morale o un’ascesi: è l’amore, l’amore incredibile di Dio per noi, sorgente della nostra vita. L’amore è il pane di cui vive l’uomo ed è sempre oggetto di fede. Chi non crede di essere amato, ha la morte nel cuore.
Questo amore è colto non da Nicodemo, maestro della legge, ma da Giovanni, ultimo dei profeti. La porta d’ingresso nel mistero del Figlio non è la sola legge, ma la legge insieme alla profezia.
La figura di Giovanni campeggia nel testo. Però il vero protagonista è Gesù, che sta sullo sfondo. Di lui infatti si parla: il profeta ne è la voce.
I discepoli di Giovanni sono infastiditi del grande successo di Gesù, che eclissa il loro maestro. Questi invece ne gioisce, vedendo il compimento delle sue attese. Il profeta sa che l’invidia, motore dell’agire umano (cf. Qo 4,4), è principio di morte (cf. Sap 2,24).
Il testo è un confronto tra Gesù e il suo precursore: sono inseparabili l’uno dall’altro, appunto come la Parola dalla sua voce. Anche i rispettivi battesimi, pur diversi, uno nell’acqua e l’altro nello Spirito (1,31-33), sono in relazione. Quello di Giovanni infatti è finalizzato a far riconoscere Gesù come l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,31.29), anzi il Figlio di Dio (1,34), dimora dello Spirito (1,32), che dona senza misura (v. 34).
Nicodemo, fariseo zelante della legge e capo dei giudei, per accogliere Gesù deve passare attraverso la testimonianza di Giovanni: è il profeta, che apre le cose “terrestri” ad accogliere quelle “celesti” (v.12). Alleanza, tempio e legge non portano a Dio senza la parola profetica che ne dice il significato. Senza profezia ogni istituzione, anche la più santa, compresi i sacramenti cristiani, diventa un feticcio: l’alleanza rimane senza vino, il tempio senza Dio, la legge senza Spirito. Da “segni terrestri”, che rimandano a Dio, diventano fine a se stessi, segni che non significano più nulla. Tutto ciò che è, è dono di Dio; Dio compreso. Ma ogni dono può diventare un idolo, anche Dio stesso. Il profeta, portatore della Parola che di sua natura rimanda all’altro, coglie questo peccato, che stravolge in male ogni bene. è sempre critico verso le istituzioni; ma non per distruggerle, bensì per riportarle al senso originario. Non è quindi un semplice contestatore, perché le accetta. Ma neanche un conservatore, perché ne denuncia le deviazioni; e neppure un moralista, perché annuncia un’alleanza nuova e un cuore nuovo, capace di vivere secondo lo Spirito di Dio. I profeti, di cui Giovanni accoglie l’eredità, impediscono che le istituzioni si divinizzino, prendendo il posto di Dio. È facile sostituire Dio con le proprie sensazioni, azioni e istituzioni, con i propri doveri o piaceri!
Giovanni, dice Gesù in Mt 11,11-14, è il più grande tra i nati da donna, punto d’arrivo della legge e dei profeti, l’Elia redivivo che deve venire per predisporre il popolo ad accogliere il Signore che viene (cf. Ml 3,23s). La sua grandezza è la sua autoinsufficienza: “troppo grande per bastare a se stesso”, è l’uomo che accoglie il dono per cui è fatto, terra aperta al cielo, finito schiuso all’infinito. Giovanni riconosce in Gesù la Parola che dà senso alla voce; vede in lui la sua altra parte, lo sposo desiderato, e ne gioisce. Sa che in lui, il Figlio amato dal Padre, gli è donata quella felicità che il Dio fedele e veritiero ha promesso. Egli è il prototipo non solo del discepolo, ma anche di ogni uomo che giunge a quella pienezza di cui è insaziabile appetito.
Né alleanza né tempio né legge né alcun’altra delle istituzioni più divine della terra può sostituirsi a Dio e dare vita all’uomo. Giovanni è testimone di un’incompiutezza radicale: tutto l’universo, mediante l’uomo creato al sesto giorno, aspira al compimento del settimo giorno e invoca la luce della propria vita; ma nessuna istituzione aiuta a raggiungerla, se non ascolta questa “voce”, che è nel cuore di ogni uomo e lo porta al di là di ogni creatura.
Il battesimo di Giovanni, anche se viene prima, è presentato come contemporaneo a quello di Gesù. Il che significa che non solo i primi discepoli, ma anche noi oggi, dobbiamo passare da Giovanni per arrivare a Gesù: giungiamo alle cose del cielo attraverso quelle della terra, incontriamo Dio mediante ciò che è veramente umano.
Il testo ha una struttura simile al precedente. Un racconto (vv. 22-26a) dà inizio ad un dialogo (vv. 26b-30) che sfocia subito in un monologo (vv. 31-36), dove Giovanni fa sue le parole con le quali Gesù si è rivelato a Nicodemo (vv. 3-21): è davvero la voce che fa risuonare la Parola.
Il battesimo di Gesù, posto all’inizio e alla fine (3,22s; 4,1s ), è il tema dominante: nascere dall’alto non è altro che accogliere, come Giovanni, la rivelazione di sé che Gesù ha fatto a Nicodemo.
Gesù è lo Sposo, colui che viene dal cielo, il testimone del Padre, il Figlio unigenito in cui Dio mostra la verità di ogni sua promessa. Aderire a lui è la vita eterna. Questa è la professione di fede cristiana. Nicodemo, maestro della legge, sarà in grado di farla ascoltando Giovanni, il profeta.
La Chiesa, seguendo le indicazioni del profeta, fa propria la testimonianza di Gesù e aderisce a lui come figlio amato dal Padre. Questo è il “battesimo”, che la apre al dono dello Spirito e la fa nascere dall’alto come sua sposa.
2. Lettura del testo
3, 22: Dopo queste cose. L’evangelista vuol mettere in connessione la scena di Nicodemo con quella di Giovanni. Dopo il confronto con la legge, ora viene quello con la profezia.
A Nicodemo, venuto di notte, Gesù offre di venire alla luce. La sua proposta trova risposta in Giovanni, il profeta che predica la conversione e attende lo Sposo. Il battesimo nell’acqua l’ha disposto a quello nello Spirito.
venne Gesù. È la luce che viene nelle tenebre (cf. 1,6.9), la Parola che viene nella sua proprietà (1,11): prima a Gerusalemme, ora nel territorio della Giudea.
e battezzava. Si dice che Gesù battezzava. Si specificherà poi che sono i discepoli a battezzare (cf. 4,2). Il testo vuol raffrontare il battesimo di Giovanni con quello di Gesù, mostrandone la continuità e la differenza. Contemporaneamente mostra, in Giovanni stesso, come si rinasce dall’alto attraverso la fede che fa aderire al Figlio amato dal Padre.
v. 23: Giovanni stava a battezzare, ecc. Ora non è più al di là del Giordano (1,28), bensì ad Ennon (= le fonti), dove, tra “molte acque”, si entra nella terra promessa. Anche con la presenza di Gesù, Giovanni continua a battezzare. Il suo battesimo non è superfluo; rappresenta le disposizioni permanenti all’incontro col Signore: è finalizzato a manifestare l’agnello di Dio, il Figlio di Dio (1,31.34). Non è compiuto in sé, ma è attesa d’altro, dell’Altro.
Il rito, come ogni istituzione, senza il profeta che lo apre al suo significato, resta sterile e morto: non fa nascere dall’alto.
Dove il profeta battezza ci sono “molte acque”. Le idrie della purificazione invece erano e resteranno in sé sempre vuote. È la Parola che le riempie (cf. 2,6s).
v. 24: Giovanni non era ancora stato gettato in carcere. Lo sarà presto, anticipando la sorte di colui che ha testimoniato (cf. Mc 6,17-29p).
v. 25: ci fu dunque una disputa, ecc. La disputa parte dai discepoli di Giovanni con un “giudeo”. Altri codici hanno “giudei”.
circa la purificazione. La discussione riguarda “le purificazioni” in generale. Si tratta di riti per la purificazione dai peccati. Ma il battesimo di Giovanni non è semplice rito di purificazione: è anche conversione e attesa dello Spirito. quello di Gesù, invece, sarà il dono stesso dello spirito. C’è quindi continuità, ma anche differenza di significati nello stesso gesto.
I vari riti, comuni a tutte le religioni – come pure l’ascesi, le tecniche e gli sforzi umani per nascere dall’alto – non servono a conquistare il cielo. Sono necessari ma insufficienti: esprimono il desiderio, ma non sono in grado di realizzarlo. Giovanni, il sapiente e profeta, lo sa: è conscio del suo limite e sa che il rito è segno di un desiderio, che si compie solo quando l’Altro gli viene incontro. C’è una religiosità naturale, comune a tutte le culture, che è positiva solo nella misura in cui non si chiude in se stessa e resta aperta al dono di Dio. Diversamente si perverte in magia.
v. 26: vennero da Giovanni, ecc. Solo Giovanni, il profeta, dice il vero senso delle istituzioni e dei riti. Mediante la sua parola le cose terrestri, invece di diventare idoli, rimandano a quelle celesti. Senza di lui la pratica religiosa si riduce a formalismo, senza relazione con Dio; diventa somma empietà.
ecco che egli battezza. Giovanni aveva detto di lui: “Ecco l’agnello di Dio” (1,29). I suoi discepoli non hanno capito il significato del suo battesimo e considerano quello di Gesù una sleale concorrenza.
tutti vengono a lui. All’inizio solo due, Andrea e un altro, hanno colto l’indicazione di Giovanni (1,35ss); ora “tutti”. “Venire a lui” significa credere in lui, il Figlio di Dio, e ottenere la vita eterna.
v. 27: non può un uomo, ecc. Per prima cosa Giovanni riconosce che “venire a Gesù” è dono del cielo (cf. 6,37-39), che fa “nascere dall’alto”. Su di lui infatti si è aperto il cielo ed è sceso lo Spirito che dimora su di lui (1,32).
v. 28: voi mi rendete testimonianza, ecc. Giovanni, i discepoli lo sanno bene, non è il Cristo (1,20-25), ma è stato inviato davanti a lui (1,23.29), testimone della luce, voce della Parola.
v. 29: chi ha la sposa, è lo Sposo. Gesù non è solo il mediatore della nuova alleanza con Dio, come Mosè lo fu dell’antica. È lo Sposo, Dio stesso: “Il tuo sposo sarà il tuo creatore” (cf. Is 54,5). Il titolo di sposo, applicato solo a Dio, si applica ora a Gesù (cf. 2Cor 11,2; Mt 22,2s; 25,1; Ef 5,25-33; Ap 19,7; 21,2).
l’amico dello Sposo. Giovanni è l’amico, che prepara la sposa per l’incontro con lo Sposo. È infatti il profeta: grazie alla sua parola critica, il tempio, la legge e il rito non si chiudono in se stessi, ma rimandano a Dio.
sta e ascolta, gioisce di gioia, ecc. La promessa si compie nell’arrivo dello sposo. Il profeta gioisce all’udire la sua voce, come Abramo che vide il suo giorno e gioì (8,56).
Invece di rattristarsi per il successo di Gesù, Giovanni esulta, come al suo primo incontro con lui (cf. Lc 1,41). Vede compiuta la propria missione di profeta: mediare l’incontro con lo Sposo.
v. 30: lui bisogna che cresca. “Bisogna” che Gesù cresca, sino a quando sarà “innalzato” (3,14). Allora attirerà tutti a sé (12,32) e si compirà in lui la benedizione fatta ad Adamo: “Crescete e moltiplicatevi” (Gen 1,28).
io invece che diminuisca. Il suo diminuire non è lo scomparire, bensì il realizzarsi della sua missione. È necessario diminuire e farsi piccoli per lasciar posto a colui che viene.
v. 31: chi viene dall’alto, ecc. Giovanni, da qui al v. 36, fa propria la testimonianza di Gesù davanti a Nicodemo.
chi è dalla terra, ecc. Mosè e i profeti sono terra (v. 12). Da loro viene la legge (1,17) e la testimonianza della luce (1,6-9). Ma non sono la vita né la luce. Ciò che è generato dalla carne è carne (v. 6). Da Gesù invece riceviamo grazia su grazia (1,16), perché egli è la luce e la vita: da lui riceviamo il dono dello Spirito, che ci genera dall’alto e ci fa diventare figli di Dio.
La terra non può salire al cielo, ma può attenderlo e accoglierlo, perché scende dall’alto.
v. 32: ciò che ha visto e udito. Il Figlio unigenito, Parola da sempre rivolta al Padre, ora è rivolta anche verso di noi e ci testimonia ciò che nessuno mai ha visto (1,18). Lui infatti parla di ciò che sa bene (v. 11).
la sua testimonianza nessuno accoglie. Se i suoi discepoli si lamentano che “tutti” vanno da Gesù (v. 26), Giovanni si lamenta che “nessuno” lo accolga. Invece di contristarsi per il suo successo, si contrista perché è scarso.
v. 33: chi ha accolto la sua testimonianza. I termini “testimonianza” “dare/accogliere”, “sigillare” (confermare), “fedeltà” (essere veritieri), richiamano l’alleanza. Accogliere la testimonianza di Gesù è sigillare l’alleanza con Dio, confermando che lui è veritiero e mantiene la sua promessa. In lui infatti riceviamo il cuore nuovo, perché egli ci dà lo Spirito senza misura.
v. 34: chi Dio inviò, ecc. L’inviato di Dio non è più solo un mediatore dell’alleanza: è l’alleato stesso, il Figlio unigenito, la Parola che esprime Dio, Dio stesso che si unisce al suo popolo.
poiché non a misura dà lo Spirito. L’alleanza non è più stipulata con lettere incise su pietra, ma con lo Spirito del Dio vivente (2Cor 3,3), effuso nei nostri cuori (Rm 5,5b). Lo Spirito del Figlio dimora in chiunque dimora nel Figlio.
v. 35: il Padre ama il Figlio, ecc. (cf. 5,20). Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito (v. 16), aveva detto Gesù a Nicodemo. Giovanni riconosce in lui, che porta l’amore del Padre ai fratelli, il Figlio amato dal Padre (cf. 10,17). “il padre ama il figlio” è l’affermazione più ovvia che ci sia; ma è anche la più dimenticata e la meno scontata, sin dall’inizio!
ha dato tutte le cose nella sua mano. “Mano” significa potere: tutto è nella mano sua come in quella del Padre (cf. 10,28.29; 10,17; 13,3; 17,2). Il Figlio riceve in dono ciò che il Padre è e dà: il Padre tutto si dona nell’amore, il Figlio tutto accoglie nello stesso amore.
v. 36: chi crede nel Figlio. Credere nel Figlio è aderire a Gesù, dimorare in lui come lui in noi (“essere in Cristo”, direbbe Paolo) e portare i frutti del suo stesso amore (15,5).
ha vita eterna. Essere in lui è vivere del suo amore reciproco con il Padre, che è la vita di Dio. Nel Figlio non solo siamo chiamati figli, ma lo siamo realmente (1Gv 3,1).
chi non obbedisce al Figlio, ecc. L’ascolto della sua parola fa dimorare lui in noi e noi in lui. Chi non lo ascolta, si esclude da lui, sua vita. La nostra decisione pro o contro Gesù, il Figlio, è “il giudizio”, che noi stessi facciamo su di noi: è accettare o rifiutare la nostra identità di figli, la nostra realtà di uomini.
l’ira di Dio dimora su di lui. Se uno non ascolta il Figlio, in lui non dimora il suo Spirito: dimora la rabbia di chi è privo della vita che pure desidera e gli spetta. Questa vita non è oggetto di rapina, come tentò di fare Adamo: è il dono di essere figli, che il Padre ci dà nel Figlio.
In questo monologo del Battista prende “voce” la Parola, espressa nel monologo di Gesù davanti a Nicodemo. È la prima professione di fede piena in Gesù. Giovanni diventa per noi non solo testimone della luce, ma anche del modo di accoglierla, per diventare noi stessi luce.