Giovedì santo, 2 aprile 2015
Gv 13,1-15
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.
Ecco, noi iniziamo a rivivere le azioni e le parole di Gesù, ascoltandole, accogliendole nel cuore e meditandole, perché solo questo possiamo fare qui e ora, insieme. Tutti intenti a bere alla fonte del mistero, perché sostenuti da quest’acqua zampillante nel nostro intimo (cf. Gv 4,14), possiamo vivere proprio vivendo nella nostra carne e nella nostra mente questo mistero. Siamo convenuti ciascuno con il proprio gravame sulle spalle e sul cuore: sì, con il nostro cuore appesantito dal peso del duro mestiere del vivere, appesantito dai nostri peccati, che altro non sono che contraddizioni all’amore, appesantito dalla consapevolezza della nostra incapacità sempre più grande di essere conseguenti a quello che abbiamo imparato e che continuiamo a conoscere da Cristo stesso.
Guardiamo la scena che il vangelo ci presenta questa sera: un uomo, Gesù, che cerca di “amare fino all’estremo, fino alla fine (eis télos: Gv 13,1)”; degli uomini che da anni stanno con lui e non lo comprendono, perché ciascuno di loro fa la propria strada; Pietro, colui che deve presiedere, che viene meno dimenticando dove è stato posto da Gesù e dimenticando il rapporto così carico di cose condivise con lui; poi “uno dei Dodici” che desidera la morte di Gesù, desidera liberarsi di lui; e gli altri non sanno neppure dove sono. Questi i protagonisti che ci stanno davanti, come uno specchio, perché noi possiamo individuarci nelle loro figure.
Gesù ha una sola parola, che ha appena detto ai giudei: “Per questo il Padre mi ama, perché io depongo la mia vita, per poi riceverla di nuovo” (Gv 10,17). Attenzione a queste parole, da non intendersi secondo tutte le assurde traduzioni esistenti, compresa la nostra liturgica: “Io depongo la mia vita hína pálin lábo autén”, cioè non “per riprenderla di nuovo” ma “per riceverla di nuovo”, per riceverla dal Padre, nella fede, senza nessuna certezza! Questa la parola-chiave per comprendere cosa Gesù fa adesso: infatti, depone le sue vesti per riceverle di nuovo, dando, attraverso la sua spogliazione, il segno di ciò che avviene; dà la vita, si spoglia, si svuota per ricevere dal Padre questa vita.
Per questo non all’inizio della cena, non nell’atrio della casa, appena entrato, ma durante la cena Gesù compie un’innovazione del rituale. Era consuetudine che all’inizio della cena, nel momento dell’accoglienza, l’ospite fosse ricevuto con l’offerta dell’acqua per la lavanda dei piedi polverosi e sporchi: l’ospite accettava l’offerta, e degli schiavi non ebrei compivano questo servizio. In ogni caso, mai – dice il midrash – un ebreo chiedeva la lavanda dei piedi a un altro ebreo, seppure schiavo, perché questo gesto di umiliazione estrema poteva essere chiesto solo a schiavi non ebrei.
Ma ormai la cena volge alla fine, ed è in essa, come per darle un’evidenza forte e imponente, che Gesù fa quel rito. Ma lo fa al contrario, in un rito di inversione, nella piena consapevolezza di ciò che egli doveva fare come ultimo gesto per i suoi discepoli: Gesù doveva mostrare loro fino dove è possibile amare, “fino all’estremo”, fino al dono della vita. Secondo i vangeli sinottici Gesù ha mostrato questo amore dando pane e vino come suo corpo e suo sangue ai discepoli (cf. Mc 14,22-25 e par.); secondo Giovanni, che pure conosce l’istituzione eucaristica, è meglio tralasciare l’eucaristia e raccontare la lavanda. I due segni dicono la stessa cosa, raccontano la stessa verità e, infatti, sono seguiti da due comandi, gli unici due dati da Gesù riguardo a un’azione significativa:
“Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24);
“Dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14).
Due gesti relativi al corpo:
corpo di Gesù dato;
corpo del discepolo servito da Gesù.
In entrambe le azioni di Gesù vi è un corpo che si dona ai discepoli. Così avviene un rito di inversione:
il maestro diventa il discepolo,
il Signore diventa lo schiavo,
colui che presiede diventa colui che serve.
E per fare questo, significativamente Gesù si spoglia delle sue vesti (tà himátia), non solo del mantello. Lo spoglieranno delle sue vesti sulla croce (cf. Gv 19,23-24), ma qui è lui a spogliarsi delle sue vesti. Ecco l’azione, il preambolo necessario al gesto dello schiavo, al servizio: lo spogliarsi. Deporre le vesti, spogliarsi è dare se stesso nella propria nudità all’altro, e questo avverrà al Golgota, ma ora è chiaramente un gesto di spogliazione, di impoverimento di se stesso, un disarmarsi. È un’azione straordinaria, che non obbedisce ai due poli tanto attrattivi per noi uomini: la paura e l’arroganza. Noi oscilliamo sempre tra queste due tentazioni: la paura, che è sempre e radicalmente paura degli altri, e l’arroganza, che è la violenza più quotidiana verso gli altri. Normalmente sono queste le nostre armature, e le indossiamo bene perché non pensiamo che siano offensive, ma solo difensive. Così manchiamo di stile, dello stile di Gesù, che è umiltà e mitezza: “Venite a me, … imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,28-29).
Gesù, denudato come uno schiavo, inginocchiato ai piedi dei suoi, sa bene che quel gesto gli era stato fatto da due donne: una peccatrice, prostituta secondo Luca (cf. Lc 7,36-50), e una donna discepola, Maria di Betania (cf. Gv 12,1-8). Gli avevano lavato e profumato i piedi, in un eccesso d’amore, durante una cena. Gesù sembra aver imparato da loro la lezione, e allora rifà il gesto, chiedendo però che questo gesto “uno lo faccia all’altro”, “una lo faccia all’altra” (cf. Gv 13,14), chiedendo che sia un gesto di reciprocità. Quella sera lo fece lui solo per darne – dice il vangelo – “un hypódeigma, un esempio, perché come (kathós) ha fatto lui, così facciamo anche noi, reciprocamente” (cf. Gv 13,15). Quella sera Gesù non ha fatto come ultima azione un miracolo, ma un’azione che ciascuno può fare: bastano un catino, un po’ d’acqua, un asciugamano. Possiamo fare questa azione sempre e dovunque: deporre la vita, disarmarsi, non incutere paura né avere paura, non essere arroganti e avere verso l’altro l’atteggiamento di chi gli lava i piedi… L’amore cristiano si riduce a questo: non è fatto di grandi sentimenti, non si nutre di eros o di passione, ma è un lavoro su di sé prima di essere un lavoro verso l’altro. Io lavo i piedi a te, se, pur vedendo il tuo peccato, so non vederlo e non tenerne conto; io lavo i piedi a te, se non mi lascio tentare dall’arroganza, che non è sempre orgoglio, ma è un guardare a me, magari al mio io minimo, ma pensandolo superiore a quello degli altri.
Cari fratelli e sorelle, fin dal IV secolo la chiesa ha voluto che chi presiede – papa, vescovo, abate – lavi i piedi ai suoi fratelli. Papa Francesco ha innovato, andandoli a lavare ai più poveri e disgraziati, nelle carceri e negli ospedali. Occorrerà forse che anche noi abbiamo l’audacia di cambiare questo rito e di riportarlo al comando di Gesù, quello di lavarci i piedi gli uni gli altri? La comunità dovrà pensarci e maturare fino a decidere… Ma comunque si svolga questo rito, secondo il comando di Gesù la lavanda deve avvenire reciprocamente; così come dovrebbe avvenire nella vita quotidiana, dove non è solo chi presiede a lavare i piedi ai fratelli, ma dove questi dovrebbero lavarsi i piedi gli uni gli altri. Lavare i piedi è un’azione scandalosa: ha scandalizzato Simone il fariseo (cf. Lc 7,39), ha scandalizzato Giuda (cf. Gv 12,4-6), scandalizza Pietro nel nostro brano (cf. Gv 13,6.8). Ma Gesù ha detto a Pietro che, se non si fosse fatto lavare i piedi, lui, Gesù, non sarebbe stato la sua porzione (cf. Gv 13,8; cf. Sal 16,5; 73,26; 142,6), perché occorre lavare i piedi, ma occorre anche lasciarseli lavare, e questo a volte è più difficile del compiere questa azione in prima persona.
Concludo con un pensiero che va a situazioni reali: pensiamoci… Nelle case ci sono uomini e donne che stanno lavando i piedi, o le parti intime del corpo, a malati e a malate che non riescono più a farlo da sé; ci sono genitori che lavano i loro figli handicappati; ci sono uomini e donne che negli ospedali sono piegati a servire i corpi malati, disabili, di sofferenti e abbandonati… Sono situazioni che quasi sicuramente implicheranno anche noi, i nostri corpi: sarà l’accettazione del servizio da fare o da ricevere, un servizio da schiavi. Anche questo servizio, fatto con amore e consapevolezza, sarà esecuzione del comando: “Fate questo in memoria di me. Come io ho fatto a voi, voi fatelo gli uni agli altri”.
C’è un’unica cosa ancora da dire. In quella lavanda c’erano i Dodici e tra loro uno dei Dodici, Giuda, uno dei Dodici, Pietro: Gesù ha lavato i piedi di Giuda, di Pietro e degli altri, tanto inconsapevoli e intontiti… Anche in questo clima, in questo ambiente, noi dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. “Amen, amen, dico a voi: il servo non è più grande del suo Signore, né l’inviato è più grande di chi lo ha inviato. Sapendo queste cose, sarete beati se le realizzerete” (Gv 13,16-17). Queste le ultime parole di Gesù.
Omelia di ENZO BIANCHI
Bose, 28 marzo 2013
Se Gesù ha detto – lo abbiamo sentito – consegnando il pane: “Il mio corpo è per voi (hypér hymôn)” (1Cor 11,24), noi dovremmo saper dire lo stesso: “Il mio corpo, tutta la mia esistenza è per voi”. Dovremmo dire al fratello: “Il mio corpo, la mia esistenza è per te, perché il mio corpo è la mia vita”. Ecco, è il corpo che è la via di Dio, non ci sono altre di vie né per noi per andare a Dio, né per Dio per venire a noi. E quando dico che il corpo è la via di Dio, intendo il mio corpo, il corpo dell’altro, il corpo che è la chiesa: tutta questa realtà è il corpo di Cristo.
Il Signore ci ha parlato, noi siamo restati in ascolto: si tratta ora semplicemente di accogliere la sua Parola, di aprire i nostri cuori perché la Parola del Signore possa trovare dimora nelle nostre vite.
Le tre letture ci testimoniano la celebrazione della Pasqua nell’antica alleanza (Es 12,1-14), la celebrazione della Pasqua nella comunità della nuova alleanza (1Cor 11,23-32) e la celebrazione della Pasqua operata da Gesù nell’ora del suo esodo da questo mondo al Padre (Gv 13,1-15). La Pasqua è il mistero centrale della fede per il popolo di Israele e per la chiesa cristiana; la Pasqua è questa festa, celebrazione, memoriale dell’azione di liberazione di Dio nella storia, liberazione degli uomini. La Pasqua è il rinnovamento dell’alleanza fedele tra Dio e la sua comunità, e attraverso la sua comunità alleanza anche con tutta l’umanità, tutta chiamata alla salvezza.
È il Signore stesso che vuole che la sua Parola raggiunga la comunità di Israele e determini il modo di celebrare quel memoriale pasquale. E il testo dell’Esodo che abbiamo ascoltato ci dice che tutta la comunità, tutta la chiesa (kol ‘edah: Es 12,3; kol qahal: Es 12,6) dovrà celebrare la Pasqua, dovrà immolarla al tramonto del quattordici di Nisan. Tutta la comunità, tutta la chiesa è soggetto celebrante, e si precisa anche che nessun incirconciso potrà mangiare la Pasqua, ma solo tutta la comunità di Israele (cf. Es 12,48). E con una consapevolezza che deve essere assolutamente rinnovata di generazione in generazione si celebrerà la Pasqua: per questo tutti i testi di istituzione della Pasqua, i tre testi dell’Esodo oltre al nostro (cf. Es 13,3-10; 23,14-19; 34,18-26), chiedono che nella trasmissione della festa pasquale si istruisca la nuova generazione, si dica che cosa significa questo atto cultuale. Anzi, diventa un dovere per i giovani chiedere: “Perché celebriamo così questa festa, che cosa significa?” (cf. Es 12,26).
Nella seconda lettura c’è la tradizione della volontà del Signore circa la celebrazione eucaristica. È tutta la comunità, di nuovo, che la celebra: “Quando voi vi radunate … quando voi mangiate il pane e bevete il vino” (cf. 1Cor 11,20.26). Ancora una volta è tutta l’assemblea il soggetto celebrante, ma proprio perché è tutta l’assemblea, l’insistenza cade sulla consapevolezza, sul capire, sul comprendere; non solo sapendo ciò che si fa in obbedienza ai gesti e alle parole di Gesù sul pane e sul vino, ma – ci dice anche Paolo – discernendo, comprendendo ciò che può svuotare le azioni del Signore, ciò che può svuotare la cena del Signore: cena della comunità, pasto comune, che può diventare cena privata, non più cena del Signore. L’ammonimento di Paolo a compiere questo discernimento è un ammonimento minaccioso: “Se voi non capite il significato profondo dell’eucaristia, voi mangiate e bevete la vostra condanna” (cf. 1Cor 11,29). E Paolo la vedeva già in atto quella condanna nella comunità di Corinto, perché molti nella comunità di Corinto erano frustrati e ammalati, e Paolo, che ha un carisma profetico, legge questo come il risultato di una patologia nella prassi eucaristica (cf. 1Cor 11,30).
Nel quarto vangelo, il vangelo “altro”, noi abbiamo l’altro segno rispetto alla frazione del pane, il segno della lavanda. Un segno che la chiesa – ahimè! – ha dimenticato sovente, per secoli; molte chiese non la praticano più, e quando la lavanda è praticata, lo è in assetti da corte imperiale che svuotano tutto il suo significato. Eppure la lavanda nel vangelo, nella volontà di Gesù è un sacramento, come affermavano i padri e come affermava addirittura san Bernardo, dicendo che la lavanda dei piedi è un sacramento quanto il battesimo e l’eucaristia. C’è un’azione di Gesù, che la comunità deve accogliere e che poi tutti i membri della comunità dovranno ripetere come memoriale per vivere concretamente la lavanda, cioè per entrare nel servizio l’uno dell’altro (cf. G 13,14-15). Certo, sopratutto chi è primo, chi presiede, deve lavare i piedi dell’ultimo, deve lavare i piedi per mostrare che se è primo, se presiede, è solo per un servizio. Ma questo segno – lo abbiamo ascoltato – Pietro non lo capisce, e Gesù lo avverte: la comprensione di questo sacramento decisivo, chi non lo comprende non può avere comunione con il Signore. “Se tu non ti lasci lavare, non avrai parte con me” (cf. Gv 13,6-8). Ma, di nuovo, vi è qui la stessa preoccupazione che abbiamo trovato nelle prime due letture, la preoccupazione della comprensione. Gesù chiede: “Avete capito ciò che ho fatto?” (Gv 13,12). Avete capito che ho lavato i piedi a tutti voi, anche a Pietro che non capisce e anche a Giuda il traditore, colui che era più lontano a Gesù quella sera? Eppure Gesù ha lavato i piedi a Giuda, come a Pietro, come agli altri senza distinzione, senza ammonizione, semplicemente facendo il servizio che dobbiamo farci gli uni verso altri nella nostra vita.
Abbiamo dunque tre racconti di alleanza, tre racconti di comunione tra credenti e di comunione tra la comunità e il Signore, ma anche tre richieste di consapevolezza e un unico messaggio narrato e fatto memoriale: il Signore è al servizio dell’uomo, della sua comunità, Israele, della sua comunità, la chiesa.
Ogni anno io mi soffermo soprattutto su una lettura, e siccome lo scorso anno ho sostato sulla lavanda dei piedi nel quarto vangelo, quest’anno sosto sul testo della prima lettera ai Corinzi. Lo conosciamo bene, anche se, come tutte le pagine del Nuovo Testamento, ci appare sempre inesauribile nella ricchezza del messaggio: basta che passi un anno e lo comprendiamo già in modo diverso, semplicemente perché abbiamo vissuto e, vivendo, se abbiamo vissuto umanizzandoci, capiamo di più anche il Signore. C’è una comunità fondata dall’Apostolo, con tante fatiche, la comunità di Corinto, la più amata da Paolo, che però a pochi anni dalla sua fondazione, in assenza di Paolo mostra di essere una comunità già spiritualmente malata. L’essere collocati nella marea del mondo pagano, in cui l’idolatria era dominante, il vivere un’economia liturgica che si faceva sempre di più garanzia di salvezza, un soggettivismo nella comunità di Corinto, che aveva mostrato molti doni – non c’è nessuna comunità nel Nuovo Testamento così ricca di soggettività e di carismi come quella di Corinto –… ma quel soggettivismo che la rendeva così feconda e ricca era diventato un individualismo che voleva far precipitare la chiesa in una situazione di non-chiesa.
Di questa situazione patologica per Paolo è un’epifania la celebrazione dell’eucaristia, come l’eucaristia è vissuta nella comunità. Paolo è costretto a denunciare: “Quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (1Cor 11,20). Per questo il primo dovere dell’Apostolo è ricordare il Vangelo: egli ricorda il Vangelo, la buona notizia, la tradizione, che lui aveva ricevuto dal Signore e che aveva trasmesso alla sua comunità. “Vi ho trasmesso quello che io ho ricevuto” (cf. 1Cor 11,23), non qualcosa di proprio o di suo, perché Paolo è l’Apostolo senza interessi personali. Paolo dice: “Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese il pane, lo spezzò e disse: ‘Questo è il mio corpo che è per voi’ – sottolineo la forma paolina delle parole di Gesù: “Il mio corpo che è per voi” –. Fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: ‘Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Ogni volta che ne bevete, fate questo in memoria di me’” (1Cor 11,23-25). Così – Paolo dice – si annuncia la morte del Signore (cf. 1Cor 11,26), cioè si fa della morte del Signore una buona notizia, si vede nella morte di Gesù la morte del Servo del signore profetizzata da Isaia (cf. soprattutto Is 52,13-53,12), quella morte in cui, proprio nell’atto estremo del dono di sé fino al dono del sangue, è stata stipulata un’alleanza nuova tra Dio e il suo popolo.
Se questa è la tradizione lasciata dall’Apostolo ai Corinzi, la comunità però sembra non comprenderla più. E noi ci chiediamo: i Corinzi non comprendevano più l’eucaristia a quale livello? Non comprendevano cosa l’eucaristia narrava di Cristo? I Corinzi non erano forse più di grado di mantenere l’ortodossia, o in verità non comprendevano più nelle sue esigenze e nelle sue conseguenze il pasto eucaristico? Non comprendevano più la verità totale, integrale che chiede ai discepoli non solo un pensiero, una teologia dell’eucaristia, una sua comprensione intellettuale, ma anche una concreta prassi che coinvolga tutto l’essere del cristiano, la realtà del suo corpo, perché è il corpo che è il cammino di Cristo? La comunità di Corinto non sa trarre le conseguenze dalla celebrazione eucaristica, e questa omissione diventa misconoscimento del dono grande dell’eucaristia. Paolo dice: “Ognuno infatti consuma la propria cena (tò ídion deîpnon)” (1Cor 11,21), sicché la cena non è più koinón deîpnon, non è più cena comune, di comunione. Come è possibile? Se uno solo è il pane, se uno solo è il corpo del Signore – ripete Paolo (cf. 1Cor 10,16-17) – come è possibile che ci siano nella comunità della comunioni private, individuali con il Signore? È forse possibile essere in comunione con il Signore senza essere in comunione con quelli con cui si vive? È possibile, perché si può andare alla cena e si può mangiare il pane, si può andare alla cena e bere al calice, ma in modo indegno, anaxíos (1Cor 11,27), indegno, e così si diventa colpevoli e degni di condanna.
Ma che cos’è questa indegnità? Siamo indegni dell’eucaristia forse perché abbiamo dei peccati? Forse perché siamo responsabili di colpe in cui cadiamo ogni giorno e in cui continuiamo a ricadere? “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, come dice quel detto tradizionale attribuito ai padri del deserto. No, perché l’eucaristia è un sacramento per i malati, è una tavola offerta per i peccatori, non è qualcosa che è per i giusti; eventualmente sono gli uomini di chiesa che trasformano l’eucaristia in un banchetto per i giusti, ma Gesù l’ha voluta per i peccatori. Quando andiamo all’eucaristia, siamo come dei mendicanti. Per questo quando andiamo all’eucaristia, anche con il nostro corpo, prima di ricevere il pane e il vino ci inchiniamo, inchiniamo il nostro corpo e poi apriamo la mano. È il gesto del mendicante: il mendicante che vi chiede l’elemosina vi fa un inchino e stende la mano, e noi facciamo lo stesso con il Signore. E non a caso la sapienza della liturgia latina ci fa dire: “Signore, io non sono degno che tu faccia di me la tua dimora, non sono degno di accoglierti nella mia casa che è il mio corpo, che è tutto il mio essere, ma confido in una sola parola, nella parola del Signore, e allora sarò fatto degno”. Dunque – vedete – questa indegnità non è l’indegnità dei nostri peccati.
E allora che cos’è questa indegnità in cui si mangia e si beve la propria condanna? Paolo la spiega subito dopo: è il non discernere, il non capire, il non riconoscere il corpo e il sangue del Signore (cf. 1Cor 11,29). Questa è davvero l’indegnità. E allora capiamo perché c’è questa preoccupazione di capire, di conoscere. Certo, Paolo vuole dire che non riconoscere che quel pane è il corpo di Cristo, che quel calice è il calice del sangue di Cristo, è indubbiamente un disprezzare il Signore stesso e non accogliere la sua parola, perché è la sua parola che ci dice che quel pane che ci viene dato e quel vino che ci viene offerto sono il suo corpo e il suo sangue. Ma Paolo intende anche un’altra cosa: non riconoscere il corpo che è la chiesa. In tutto il contesto di questo capitolo l’accento non cade sugli elementi dell’eucaristia ma sul corpo che è la chiesa. E proprio perché i Corinzi non hanno il discernimento della chiesa, mangiano ognuno la propria cena, non aspettano gli altri, non condividono con i poveri quella cena: ecco perché disprezzano il corpo del Signore. Paolo l’ha detto appena prima: “Perché venite a disprezzare il corpo del Signore?”. Nella comunità di Corinto si poteva essere cristiani e non rendersi conto adeguatamente del corpo di Cristo che è la comunità, che è la chiesa.
Perché un tale misconoscimento? Come può avvenire?, si chiede Paolo. Ma potremmo dire, se pensiamo a noi oggi, perché ciò avviene ancora dopo tanti secoli di teologia eucaristica, e soprattutto oggi, in un tempo cui i cristiani possono beneficiare di una ricchezza teologica, spirituale, liturgica sull’eucaristia che forse non c’è mai stata in tutta la storia della chiesa? Pensiamo solo, noi che viviamo in questa generazione, all’ecclesiologia di comunione: ebbene, noi che abbiamo un’ecclesiologia di comunione, che abbiamo sentito la comunione con una forza che le altre generazioni prima nella chiesa cattolica non hanno mai sentito, siamo in realtà quelli che più misconoscono la comunione del corpo del Signore. Questa è la verità. Di nuovo, certamente c’è una dominante di individualismo. Ma perché la chiesa non è più amata dalle nuove generazioni? Si può solo dare la colpa, eventualmente, alla gerarchia o a quanti danno scandalo? O non c’è forse un ammanco, grave, che consiste nel non discernere più che la chiesa è il corpo del Signore? Interessarsi alla vita della chiesa è interessarsi al corpo del Signore! Noi dobbiamo interrogarci seriamente, perché si fa presto a pensare che noi andiamo all’eucaristia a posto, tutt’al più se ci siamo confessati prima, riducendo il nostro peccato semplicemente alle colpe quotidiane. No, c’è una questione di discernimento del corpo del Signore: non è solo il pane e il vino il corpo e il sangue del Signore, ma è la chiesa, è la comunità, e poi certamente il povero, il bisognoso, l’ultimo – questo Gesù ce lo ha insegnato – sono corpo del Signore.
Noi dobbiamo chiederci se siamo capaci di discernere il corpo di cui facciamo parte, il corpo comunitario, il corpo di coloro che vivono accanto a noi, il corpo degli ultimi, dei bisognosi, dei peccatori. Noi certamente ripetiamo l’eucaristia, la celebriamo con attenzione e cura, ci esercitiamo alla necessaria ars celebrandi, ma poi non vediamo il corpo reale di Cristo: affamati, prigionieri, nudi, malati, stranieri, perseguitati, dimenticati (cf. Mt 25,31-46). Insomma, peccatori – non dimentichiamo questo – peccatori, in modo diverso sempre bisognosi.
Se Gesù ha detto – lo abbiamo sentito – consegnando il pane: “Il mio corpo è per voi (hypér hymôn)” (1Cor 11,24), noi dovremmo saper dire lo stesso: “Il mio corpo, tutta la mia esistenza è per voi”. Dovremmo dire al fratello: “Il mio corpo, la mia esistenza è per te, perché il mio corpo è la mia vita”. Ecco, è il corpo che è la via di Dio, non ci sono altre di vie né per noi per andare a Dio, né per Dio per venire a noi. E quando dico che il corpo è la via di Dio, intendo il mio corpo, il corpo dell’altro, il corpo che è la chiesa: tutta questa realtà è il corpo di Cristo. Il culto spirituale, la loghiké latreía (Rm 12,1), secondo l’Apostolo, è un culto nel corpo e per il corpo: il mio corpo per il corpo degli altri, come il corpo di Cristo è per il nostro corpo. Ricordate 1Cor 6,13: “Il corpo è per il Signore”, ma anche “il Signore è per il corpo”. Il Signore è a servizio del corpo, corpo che è la chiesa, corpo che sono io, corpo del fratello. Essere cristiani significa proprio capire che Dio ha potuto dirci in Gesù: “Il mio corpo è per voi, il mio corpo è per voi”. Ecco che cosa significa riconoscere il corpo di Cristo per mangiare degnamente il pane che è il suo corpo. La liturgia cristiana si realizza non nella celebrazione e non si esaurisce nella celebrazione. La celebrazione non è mai il fine, il culmine del nostro culto a Dio. Il culto spirituale (loghiké latreía) o il sacrificio spirituale (pneumatiké thysía: cf. 1Pt 2,5) si vivono e si realizzano nella vita quotidiana, nel nostro rapporto quotidiano con gli altri: questa è la consapevolezza, una vera comprensione non intellettuale, non gnostica dell’eucaristia.
Il Signore ci attende dunque all’eucaristia. E qui dobbiamo dirlo: il Signore attende tutti i battezzati. Lo ripeto, tutti i battezzati che sanno discernere il corpo e il sangue di Cristo possono andare e, inchinati, stendere la mano: c’è il Signore che ci dà il suo corpo. Interroghiamoci anche su questo, come mai sia possibile che si vada all’eucaristia senza discernimento, e poi altri che andrebbero magari con discernimento, solo perché abbiamo messo delle barriere confessionali, non vi possono andare. Come se semplicemente il recitare le verità di fede bastasse senza una reale prassi. Chi è più vicino, fratello, sorella, madre di Cristo? Lo ha detto Gesù: chi fa la volontà di Dio (cf. Mt 12,50). Ecco, l’eucaristia è là: come mendicanti dobbiamo andare con grande discernimento del corpo di Cristo. E faccio un invito: il corpo di Cristo lo si discerne al di là della nostra confessione, non per far sparire le barriere che la storia ha innalzato e che indubbiamente sono barriere in cui Dio ne ha sofferto, ma perché il nostro occhio deve essere capace di vedere, al di là della barriera, quelli che discernono il corpo e il sangue del Signore e che in una prassi sono più fedeli di quanti magari vanno alla stessa eucaristia e non hanno questa capacità né di discernimento né di farne memoria.
Il Signore davvero ci porge l’eucaristia, accogliamo questo gesto straordinario. Io spero che la chiesa conservi questo gesto in cui l’eucaristia si riceve e non si prende: la si riceve, dopo aver assunto l’atteggiamento del mendicante, con il carico dei nostri peccati, perché l’eucaristia è un viatico per i peccatori, per quelli che si sentono tali. E quanti si sentono giusti, vadano o non vadano all’eucaristia, per loro non cambia nulla, anche se in realtà mangiano e bevono la propria condanna.
Bose, 5 aprile 2012
Omelia di ENZO BIANCHI
Ecco cosa fa l’Amore, cosa fa Dio verso di noi: un Dio inginocchiato ai nostri piedi che lava i nostri piedi sporchi. È una liturgia della quale noi possiamo fare profezia, ma che avverrà realmente quando nella nostra morte staremo davanti a Dio: Dio, l’Amore che abbiamo tanto cercato e che abbiamo tentato di vivere, ci laverà i piedi…
Siamo all’inizio del triduo, dei tre giorni pasquali, giorni in cui celebreremo tanti misteri: i misteri della vita di Gesù Cristo, la sua passione, morte e resurrezione. Ricordiamo degli eventi, delle azioni vissute da Gesù, e nel ricordarle le celebriamo e le «presentifichiamo» in modo da essere coinvolti in esse, in modo da essere resi partecipi del mistero. Questa è la dinamica liturgica, sacramentale che fonda le nostre liturgie pasquali. Eccoci allora, in questa sera, tutti insieme, perché sta scritto: Tutta la comunità d’Israele celebrerà la Pasqua (Es 12,47).Tutta l’assemblea della comunità d’Israele immolerà l’agnello al tramonto (Es 12,6).
Celebriamo il mistero che ci costituisce comunità del Signore, appartenente a lui, il mistero che origina la nostra comunione: per questo siamo tutti insieme, radunati nello stesso luogo, «convenientes in unum» (cf. 1Cor 11,20).
In obbedienza al ritmo che nel giovedì santo mi porta a commentare alternativamente l’epistola (1Cor 11,23-32) e il vangelo (Gv 13,1-15), quest’anno sosterò soprattutto sul racconto della lavanda dei piedi, l’altro mistero di Cristo che celebriamo oltre a quello eucaristico. Questo però nella consapevolezza che i due segni, le due azioni di Gesù sono state anticipazione di un solo evento: il dono della sua vita al Padre e a noi uomini, la sua morte. Questa volta vorrei compiere la lettura del vangelo cercando il vero protagonista della lavanda dei piedi, azione che ci scandalizza e, nello stesso tempo, dovrebbe consolarci.
Per Gesù «è venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1), e Gesù «sa che il Padre gli ha dato tutto nelle mani, che egli è venuto da Dio e a Dio ritorna» (Gv 13,3). Il quarto vangelo inizia il racconto della passione di Gesù ponendo il Padre come il termine senza il quale tutto ciò che Gesù e, fa e dice non ha consistenza: il Padre, questo termine che siamo costretti a usare perché non abbiamo un’altra parola che, per analogia, sia capace di esprimere l’origine, colui che origina e genera… Ma questa sera vorrei chiamare il Padre con un altro termine analogico: l’Amante, colui che ama, colui dal quale scaturisce l’Amore. Non lo invento, ma lo deduco dalle parole di Gesù: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35).
Ecco chi è il Padre: innanzitutto lo scaturire dell’Amore, colui che nel suo Amore ha generato il Figlio, colui che ama Gesù uomo, quell’uomo che solo lui poteva darci, quell’uomo che l’umanità non avrebbe mai potuto generare, produrre. È questo Amore che sta dietro a Gesù e di cui Gesù si fa esegeta tra gli uomini (exeghésato: Gv 1,18), perché l’incarnazione, il farsi carne, sárx, della Parola di Dio, del lógos toû theoû (cf. Gv 1,14), è in vista della conoscenza, della narrazione dell’Amore. L’Amore generante ha inviato il Figlio nel mondo (cf. Gv 3,17.34; 4,34; 5,23.24.30.36.37.38; 6,29.38.39.44.57; 7,16.18.28.29.33; 8,16.18.26.29.42; 9,4; 10,36; 11,42; 12,44.45.49; 13,20; 14,24; 15,21; 16,5; 17,3.8.18.21.23.25; 20,21), e Gesù è consapevole di questo Amore che egli deve raccontare, testimoniare fino alla fine, per poi, attraverso il grido: «È compiuto (Gv 19,30), tutto ho realizzato!», fare ritorno all’Amore. Ecco perché, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino all’estremo (eis télos)» (Gv 13,1), fino alla fine dei suoi giorni nel mondo, fino alla morte.
Sì, «Dio è Amore» (1Gv 4,8.16) e «nessuno l’ha mai visto» (Gv 1,18; cf. 1Gv 4,12) nella sua autenticità, nella sua pienezza, ma il Figlio ci ha raccontato, exeghésato, il Dio Amore. Questa è la nostra fede, la particolarità che rende il cristianesimo «altro», altro dallo stesso ebraismo veterotestamentario che ne è la radice. In quest’ottica noi possiamo leggere questa sera, dietro il racconto fornitoci da Gesù, chi è il nostro Dio, come agisce in noi il nostro Dio. Questa, del resto, è l’intenzione di tutto il quarto vangelo: leggere la vita e le azioni di Gesù, ascoltare le sue parole come eco del Padre, come racconto di Dio.
Questa dunque è l’epifania di Dio, dopo la quale i discepoli, se avessero fede, potrebbero dire: «Abbiamo visto il Padre» (cf. Gv 14,9). Ma i discepoli, come ancora noi oggi, fanno difficoltà ad assumere questa visione, restano dei giudei seguaci di Gesù, dei giudei cristianizzati, incapaci di dire a Gesù: «In te vediamo Dio!». Gesù allora fa un’azione precisa, anzi diverse azioni, espresse non a caso da sette verbi: si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugamano, se lo cinge attorno alla vita, versa dell’acqua nel catino, lava i piedi dei discepoli e li asciuga (cf. Gv 13,4-5). Ecco cosa fa l’Amore, cosa fa Dio verso di noi: un Dio inginocchiato ai nostri piedi che lava i nostri piedi sporchi. È una liturgia della quale noi possiamo fare profezia, ma che avverrà realmente quando nella nostra morte staremo davanti a Dio: Dio, l’Amore che abbiamo tanto cercato e che abbiamo tentato di vivere, ci laverà i piedi…
Per questo Gesù afferma subito dopo: «Avete capito questa azione? È l’azione del Kýrios, del Signore, è l’azione di Dio che io, quale didáskalos che insegna, che fa segno a Dio, vi ho mostrato» (cf. Gv 13,12-13). Sì, Dio è talmente diversi dai nostri padri terreni, che questa parola non è adeguata a definirlo neppure per analogia. Per tale ragione preferisco parlare di Dio come dell’Amante, dell’Amore infinito e radicalmente gratuito che non si deve mai meritare. «Io, il Kýrios innanzitutto, poi anche il didáskalos, vi ho lavato i piedi» (cf. Gv 13,14), dice Gesù. Ecco la grande rivelazione di Gesù: Dio è colui che ci ama fino a lavarci i piedi!
Per questo noi dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14). Dall’Amore di Dio, dall’Amore che è Dio scaturisce, dovrebbe scaturire, l’amore tra di noi che confessiamo, aderiamo, crediamo al Dio di Gesù Cristo. E qui, fratelli e sorelle, noi scopriamo la nostra miseria: non ci pieghiamo gli uni di fronte agli altri neanche con un inchino, tanto meno ci inginocchiamo di fronte all’altro, al fratello o alla sorella. Di conseguenza non laviamo i piedi dell’altro, ma guardiamo i suoi piedi per vederne la sporcizia, per giudicarlo. Non siamo nemmeno capaci di misericordia gli uni verso gli altri; anzi, se vediamo i piedi sporchi degli altri crediamo di avere noi i piedi puliti! E noi saremmo discepoli di Gesù, del Gesù che è Vangelo e del Vangelo che è Gesù? Dio è un termine troppo equivoco per gloriarcene, Gesù può essere molto amato da noi come «maestro ideale», come il Santo di cui ci siamo fatti il modello: ma il Dio di Gesù e Gesù stesso sono solo e soltanto ciò che c’è nel Vangelo, sono il Vangelo. I nostri piedi sono sporchi, e quanto più si è vissuto e camminato, tanto più sono sporchi. Forse gli altri non ce li lavano e noi non li laviamo loro, ma Gesù il Signore ci attende, nel nostro esodo da questo mondo all’Amore, per lavarceli.
Ecco ciò che questa sera viviamo come mistero di Cristo, nel segno della lavanda che chi presiede fa ai fratelli e alle sorelle. È solo un segno che dovrebbe essere memoria per il nostro vivere quotidiano. Vi confesso che l’unica domanda che mi faccio alla sera è: «Oggi ho lavato i piedi a chi ho incontrato?», e non sempre posso rispondere affermativamente. Guardiamo insieme a questo segno, nella fede e nella speranza che il Signore, quando saremo davanti a lui, ci laverà i piedi e ci introdurrà con lui nell’Amore senza fine.
ENZO BIANCHI
Bose, 5 aprile 2012
https://www.monasterodibose.it